19.6.12

EMANUELA ZUCCALA', La democrazia in ostaggio


Sicilia terra di elezione delle stragi, della violenza pura del potere. Sicilia che riesce a impregnare di sicilianità ogni fatto di sangue consumato nel suo territorio fra Ottocento e Novecento, dall’eccidio di Bronte ordinato dal garibaldino Nino Bixio fino a Capaci e via d’Amelio, con un bilancio di due migliaia di morti in poco più di un secolo. Un lungo percorso di repressione in cui gli eventi hanno un unico marchio: sono azioni esemplari per la salvaguardia di privilegi minacciati, azioni talvolta preventive o repressive, affinché i potenti di turno si assicurino il dominio.

Nel libro La Sicilia delle stragi (Newton Compton), il curatore Giuseppe Carlo Marino parla di una «pedagogia della paura» messa in scena nell’isola dall’indomani dell’unità d’Italia agli eccidi proletari del primo ventennio del Novecento; dalle stragi naziste e americane a quella di via Maqueda a Palermo nel ’44; fino a Portella della Ginestra, «madre di tutte le stragi» scrive Marino, e al delirio della mafia corleonese esploso all’inizio degli anni Novanta.

Un libro drammatico, una cronistoria della Sicilia attraverso tragedie che rivelano tensioni sociali e giochi di potere. Marino, ordinario di storia contemporanea all’università di Palermo e tra i maggiori storiografi della mafia (suoi, sempre per Newton Compton, Storia della mafia nel 2006 e I padrini nel 2007), è stato fra i primi a ipotizzare per la strage di Portella della Ginestra, 1° maggio 1947, un «complesso mandante collettivo» per cui Salvatore Giuliano sarebbe stato strumento e vittima degli interessi economici dei ceti dominanti locali e di quelli politici nazionali della Dc, terrorizzata dalla minaccia del comunismo. Ed è proprio l’allarme per il comunismo a caratterizzare l’elenco degli assassinii in Sicilia, almeno fino all’epoca delle guerre di mafia degli anni Sessanta: il timore di una rivoluzione proletaria rafforza i rapporti tra mafia e politica in un circuito regionale e nazionale «nel quale la borghesia mafiosa», sostiene lo storico, «ebbe piena libertà di esercitare il suo controllo sugli affari e sulle risorse del territorio» all’ombra di uno Stato acquiescente.

Molto prima di Capaci e via d’Amelio c’è la misteriosa storia dei pugnalatori (ricostruita, nel libro, da Amelia Crisantino), tredici persone accoltellate per strada a Palermo nel 1862 senza apparente motivo: evento oscuro che forse per la prima volta fece parlare dei siciliani come di un popolo di rivoltosi e dunque invocò ordine e repressione, a tutto vantaggio del consolidarsi dell’aristocrazia mafiosa. Ci sono i Fasci del Lavoratori, il più grande movimento popolare del XX secolo dopo la Comune di Parigi e represso dall’intervento militare voluto da Francesco Crispi. Ci sono gli efferati eccidi di Biscari, Vittoria, Comiso, Caltagirone e Alcamo dopo lo sbarco alleato. C’è la strage di Canicattì (raccontata da Salvatore Vaiana), tre contadini e un carabiniere uccisi durante una manifestazione agraria. E le repressioni dei contadini fra il ’44 e il ’65, in una strategia che viene definita di «strage lunga», fino alle guerre di mafia e alle cronache più recenti.

L’ultimo capitolo è firmato dal magistrato Antonio Ingroia, collaboratore di Paolo Borsellino, che ripercorre il biennio terribile 1992-93 dall’assassinio di Salvo Lima alla strage dei Georgofili a Firenze. Stragismo siciliano che usciva dai confini regionali, cambiava tecniche, privilegiava azioni eclatanti come non aveva mai fatto. Cosa Nostra aveva fallito nei suoi rapporti con la politica, la tradizionale alleanza tra poteri locali e preoccupazioni di Stato si era rotta. Ci voleva una prova di forza. E dopo quel biennio terribile, l’inabissamento: la Sicilia cessa di essere terra di stragi, la mafia sembra tacere. Ingroia ricorda che non è stata mai nemmeno pensata una Commissione d’inchiesta sugli omicidi di Falcone e Borsellino, nonostante nei processi e nelle sentenze sia emersa l’ombra di mandanti esterni. E sostiene che l’unica chance rimasta all’antimafia, oggi, stia nel disvelamento «dello scandaloso e storico connubio tra mafia e classe dirigente, locale e nazionale».

Come la democrazia italiana del dopoguerra fu segnata dal sangue di Portella della Ginestra, così la seconda Repubblica affonda i pilastri nella stagione stragista mafiosa di matrice siciliana. E finché la verità non verrà a galla, scrive il magistrato nell’ultima pagina del libro, «la democrazia italiana resterà ostaggio di quei poteri criminali che ne hanno condizionato le origini e la storia».



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