21.11.09

SALVATORE VAIANA, Didattica per un'educazione antimafia

Agli studenti di Favara,
affinché si approprino della loro storia
e maturino un’alta coscienza dei principi di legalità e solidarietà

INDICE
Premessa
Introduzione
1. Educazione civica e disposizioni antimafia
2. Etimologia, denominazioni, definizioni e storia della mafia
3. Riferimenti letterari del fenomeno mafioso
Bibliografia




PREMESSA

Il presente modulo interdisciplinare, utilizzato in parte dagli alunni della classe IV AM e, in seguito, rivisto e ampliato, vuole essere un contributo per un’attività educativa antimafia offerto all’Istituto Magistrale e Liceo Socio-Psico-Pedagogico M. L. King e all’IPIA G. Marconi, gli istituti di Favara in cui, in due anni di attività docente, ho maturato l’idea del modulo; ed, inoltre, un suggerimento per un analogo progetto “di respiro provinciale”, che un “gruppo di lavoro” composto da docenti e alunni “idealmente motivati” potrebbe elaborare, con il patrocinio del Provveditorato agli Studi di Agrigento, dandogli un’impostazione che utilizzi la storia e la cultura dei comuni dell’agrigentino, con l’obiettivo finale di coinvolgere attorno ad esso scuole di ogni ordine e grado, nella prospettiva auspicata di un loro “collegamento in rete” per evitare, da un lato, l’emarginazione e l’autarchia e per sviluppare, dall’altro, una dimensione orizzontale nel nuovo sistema d'istituzioni scolastiche autonome.

INTRODUZIONE


Terra di dèi e di eroi! Povera Sicilia! Cosa ne è delle tue brillanti chimere? (A. de Tocqueville )
Non è certo questo il luogo per proporre disquisizioni arzigogolate volte a dimostrare una finalità didattico-educativa così lapalissiana: la scuola ha il compito istituzionale d'opporsi alla mafia combattendo un certo sicilianismo, che è funzionale e consequenziale a quest’ultima.
Sulle origini e sul valore del sicilianismo non c’è fra gli studiosi unità di interpretazione, per cui è utile soffermarsi sul suo sviluppo storico e su alcune di queste interpretazioni.

Ideologia sicilianista, sicilianismo, sicilitudine

Nella seconda metà del Cinquecento il messinese Scipione Di Castro scrisse gli Avvertimenti a Marco Antonio Colonna quando andò viceré in Sicilia in cui traccia, fra l’altro, il carattere dei siciliani. Quest’aspetto ha suscitato l’interesse dello scrittore Leonardo Sciascia, che, nelle sue Opere, ce ne offre una sintesi:

«I siciliani - dice il Di Castro - generalmente sono più astuti che prudenti, più acuti che sinceri, amano le novità, sono litigiosi, adulatori e per natura invidiosi; sottili critici delle azioni dei governanti, ritengono sia facile realizzare tutto quello che loro dicono farebbero se fossero al posto dei governanti. D’altra parte, sono obbedienti alla Giustizia, fedeli al Re e sempre pronti ad aiutarlo, affezionati ai forestieri e pieni di riguardi nello stabilirsi delle amicizie. La loro natura è fatta di due estremi: sono sommamente timidi e sommamente temerari. Timidi quando trattano i loro affari, poiché sono molto attaccati ai propri interessi e per portarli a buon fine si trasformano come tanti Protei, si sottomettono a chiunque può agevolarli e diventano a tal punto servili che sembrano appunto nati per servire. Ma sono d’incredibile temerità quando maneggiano la cosa pubblica, e allora agiscono in tutt’altro modo».

Alcuni storici collocano agli inizi del Seicento la nascita dell’ideologia sicilianista, che tende a mitizzare le origini della Sicilia. Nel suo Discorso dell’origine e antichità di Palermo e de’ primi abitatori della Sicilia e dell’Italia (1614) Mariano Valguarnera vuole «demonstrare che la Sicilia fu sempre isola e che non fu mai giunta all’Italia».
Nel Settecento, gli eruditi siciliani nobilitano l’età omerica dei ciclopi, considerati i lontani progenitori dei siciliani. Nelle sue Memorie istoriche (1742) G. B. Caruso asserisce addirittura che i ciclopi «erano al certo di statura a quella de’ nostri simigliantissima».
Nella prima metà dell’Ottocento, l’ideologia sicilianista, sostenuta dall’aristocrazia isolana, si evolve verso il separatismo, fondato sulla teorizzazione della “nazione siciliana”.
Nella seconda metà dell’Ottocento, con l’ingresso della Sicilia nel nuovo Regno d’Italia l’ideologia sicilianista si trasforma in sicilianismo, cioè in difesa tout court dell’onore dei siciliani offeso dai nuovi dominatori romani (reazioni antigovernative per i metodi di lotta al brigantaggio, reazioni per gli esiti dell’inchiesta di Franchetti e Sonnino).
Dagli inizi del Novecento il sicilianismo si colora in modo esplicito di mafiosità (caso Palizzolo). «Se per mafia si intende il sentimento dell’onore portato sino alla esasperazione, insofferenza contro la sopraffazione, generosità..., allora anche io mi dichiaro mafioso»: da quando, nel 1924, fu pronunciata da V. E. Orlando, questa frase è assurta a simbolo di un sicilianismo di stampo mafioso.
Nel secondo dopoguerra l’analisi sul sicilianismo si è molto sviluppata. Leonardo Sciascia di Racalmuto ha criticato una certo sicilianismo tendente ad esaltare, in opposizione alla tesi di Giovanni Gentile di «una Sicilia “sequestrata”, cioè tagliata fuori dal movimento della cultura europea», «una Sicilia aperta e comunicante» e «una cultura vivacemente italiana ed europea». Il racalmutese preferisce parlare di un’insularità d’animo dei siciliani (“sicilitudine”) come conseguenza del susseguirsi delle numerose dominazioni, causa di una paura, nei confronti dello straniero, che con il tempo è diventata esistenziale; un’insularità i cui effetti negativi vengono, da certa cultura siciliana, capovolti in positivi, in «privilegio e forza»:

«L’insicurezza è la componente primaria della storia siciliana; e condiziona il comportamento, il modo di essere, la visione della vita - paura, apprensione, diffidenza, chiuse passioni, incapacità di stabilire rapporti al di fuori degli affetti, violenza, pessimismo, idealismo - della collettività e dei singoli. [...]
E a un certo punto l’insicurezza, la paura, si rovesciano nell’illusione che una siffatta insularità, con tutti i condizionamenti, le remore e le regole che ne discendono, costituisca privilegio e forza là dove negli effetti, nella esperienza, è condizione di vulnerabilità e debolezza. e ne sorge una specie di alienazione, di follia, che sul piano della psicologia e del costume produce atteggiamenti di presunzione, di fierezza, di arroganza (si pensi al discorso che don Fabrizio, nel Gattopardo, fa al piemontese Chevalley: ”I siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti; la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla). [...]
D’altra parte l’insicurezza dell’isola, la sua vulnerabilità, la sua tendenza al separatismo, la sua secolare disponibilità all’illusione della indipendenza, hanno portato le potenze dominanti alla concessione di privilegi che appunto servissero a dare illusione di indipendenza a tutti i siciliani e concrete garanzie e sicuri benefici alla classe aristocratica, prima; a quella che approssimativamente possiamo chiamare borghese, oggi. [...] Privilegi, di cui il popolo di fatto non ha mai goduto ma sempre è stato pronto a sollevarsi per difenderli. [...] Intorno a questi privilegi, quasi sempre per difenderli, qualche volta ad avversarli, si è mossa per secoli, e fino ad oggi, la cultura siciliana».

Il sicilianismo, linfa vitale del sistema di potere della mafia, è definito da Nando Dalla Chiesa, con efficace sintesi, come «un sentimento intenso e confuso di solidarietà tra i siciliani, che si fonda, da una parte, su un radicato vittimismo di massa, dall’altra, sulla teorizzazione sociologica della eccezionalità della civiltà siciliana nel contesto storico nazionale ed europeo» ("Il potere mafioso", 1976).
Lo storico Massimo Ganci, pur respingendo fermamente «il sicilianismo reazionario [...] sovrastruttura ideologico-politica del blocco agrario» e un «certo “sicilianismo” [che] è stato e forse vorrebbe continuare ad essere il paravento dalle ideologie progressive e l’antemurale contro ogni politica socialmente avanzata», critica fermamente l’«anti-sicilianismo» ("La nazione siciliana", 1978):

«Storicamente e politicamente, la “questione siciliana” non può essere diluita nella genericità della “questione meridionale”, poiché vi si oppongono numerose ragioni geografiche, storiche e politiche. Con questo non intendiamo riaprire la “querelle”, ormai superata, intorno al Nord. Oggi si va verso una configurazione diversa dell’Europa, nella quale certi “Stati nazionali”, più o meno artificiosamente costituiti, dal punto di vista costituzionale ed amministrativo (e lo Stato “unitario” italiano è fra questi), tendono a sciogliersi nella più moderna realtà delle “aree regionali”. Detto ciò giova ribadire l’antistoricità e l’inopportunità politica della soluzione separatistica, per quanto riguarda la Sicilia. Non riusciamo, quindi, a comprendere certe reazioni “antisicilianistiche”, di siciliani, giunte al limite del grottesco e al fondo del più superficiale provincialismo. È ben provinciale, infatti, e frustrato, chi disprezza la propria gente, vergognandosi di farne parte, e chi disprezza la tradizione del proprio paese - qualcuno, infatti, afferma che non esiste una tradizione siciliana - certo che, per questo suo comportamento, il “settentrionale” che lo ascolta, lo distingua dalla “massa damnationis” sudista e lo salvi da essa. È ben provinciale e frustrato chi pensa ed agisce così. Ed anche illuso. Questo suo comportamento gli procaccia dal “settentrionale” - bene inteso da quello intelligente - ironia, compatimento, disprezzo».

«Se il significato del termine “Nazione” - osserva Ganci - consiste nella capacità di dare vita ad uno “stile proprio di vita” e a manifestazioni d’arte e di cultura che siano autenticamente sè stesse, non vediamo come questa definizione non competa alla Sicilia»: si tratta di precisare se di questo legittimo “stile proprio di vita” devono far parte quei sottovalori tramandatici dalla tradizione di cui diremo. Le osservazioni di Ganci sono condivisibili a condizione che dalla nostra “tradizione nazionale” si isolino i germi malefici per RISANARLA.
Una delle odierne espressioni organizzate del neosicilianismo è l’O.D.R.I.S. (Officina di Documentazione, Ricerca e Studi sull’Identità Siciliana) che lo scorso anno ha organizzato un convegno sul tema “La Nazione Siciliana tra cultura e politica oggi”. Secondo il sicilianista Orazio Vasta, l’iniziativa ha ottenuto come risultato «la rottura della congiura del silenzio sulla storia dell’antica Trinakria»; risultato considerato positivo perché «la memoria storica dei Siciliani è pressoché inesistente, e quindi, è tutta da ricostruire». Il Vasta dichiara di riconoscersi «nei valori del verbo cristiano, della SANA TRADIZIONE, della lotta alla mafia, del sicilianismo democratico e non violento».


Sicilianismo e mafiosità

Il sicilianismo si alimenta di sub-valori, concetti, sentimenti che ne sostanziano la filosofia, sia quella del senso comune sia quella elaborata dell’intellighenzia: il silenzio («’A megghiu parola è chidda ca ‘un si dici»), l’onore (il “delitto d’onore” è stato considerato fino a qualche anno fa l’orgoglio etnico sicilianista), la cavalleria (la vecchia mafia, come la “Cavalleria” dei Sanfilippo Rineli di Favara, viene indicata con lo stereotipo di una cavalleria rusticana erede di mitici “vendicatori”), la famiglia (essa sta ad indicare la cellula della società mafiosa, sistema di relazioni sociali, politiche, economiche e culturali guidata da un capofamiglia; “zu” o “zi” viene usato come segno di rispetto, talvolta anche in ambito scolastico), l’amicizia (“Amico degli amici” è il favoreggiatore o il protettore politico della mafia), la gerarchia (la mafia è organizzata secondo una rigida struttura piramidale; nelle istituzioni pubbliche la funzione, a qualsiasi livello gerarchico, non è intesa come servizio, ma come strumento di potere), la rassegnazione (il fatalismo di De Roberto e Tomasi di Lampedusa induce al rifiuto della politica intesa come praxis, come strumento di trasformazione della realtà nei suoi aspetti regressivi).
Essi sono riscontrabili ampiamente nel folklore (canti, proverbi ecc.), nella poesia dialettale, nella grande letteratura. Il secolo scorso ne parlò per primo il funzionario di P.S. e criminologo Giuseppe Alongi di Prizzi (PA), che nel suo saggio Maffia individua un «codice dell’omertà» costituito da «massime» che sono «il contenuto, il nocciolo del senso morale dei maffiosi». Alcuni detti riportati in quest’opera «sanciscono l’ubbidienza, il silenzio, il rispetto verso la maffia, altri sono dei veri motti di sfida alla giustizia ed all’autorità»:

1. A cu ti leva lu pani levacci la vita;
2. Cappeddu e malu passu dinni beni e stanni arrassu;
3. Scupetta e mugghieri nun si mprestanu;
4. Si moru mi drivocu, si campu t’allampu;
5. Vali cchiù n’amicu nchiazza ca cent’unzi nsacca;
6. La furca è pri lu poviru, la giustizia pri lu fissa;
7. Cu avi dinari e amicizia teni nculu la giustizia;
8. Zoccu nun ti apparteni nè mali nè beni;
9. Quannu c’è lu mortu bisogna pinsari a lu vivu;
10. La tistimunianza è bona sinu a quannu nun fa mali a lu prossimu;
11. Cu mori si drivoca, cu campa si marita;
12. Carzari, malatii e nicissità provanu lu cori di l’amici.

Alcuni sentimenti, come l’odio, la vendetta, l’amore, l’amicizia, il patimento e la morte, sono cantati dal poeta prizzese Vito Mercadante nello spazio breve di una quartina del componimento “La Sicilia” (Focu di Muncibeddu, 1910). Il poeta vernacolo parte da Prizzi per il servizio di leva e durante il viaggio ammira con stupore le bellezze di Palermo, Napoli, Firenze, Milano, Venezia, ma il suo cuore addolorato ritorna alla Sicilia, «terra ‘ncantata, / sbucciata comu un ciuri ‘ntra lu mari, / terra di tantu amuri e scunsulata” [...], / unni l’odiu si ferma a la vinnitta, / unni l’amuri adduma sinu all’ossa / e l’amicizia sulu po finiri, / comu lu patimentu, ‘ntra la fossa». L’odio e la vendetta sono da tempo remoto i sentimenti ardenti di un popolo di vinti che Mercadante definisce «razza forti e ginirusa». Frasi come «mi alimenterò d’odio», circolanti perfino in ambito scolastico, o forme di vendetta come il recente tentato omicidio di Favara sono manifestazioni di regressione verso società fondate sulla legge del taglione, a parziale giustificazione delle quali c’è solo la considerazione della latitanza o della incapacità degli organismi statuali addetti a dirimere le controversie. Sono sentimenti questi che sarebbero evidentemente disapprovati dal dimenticato M. L. King; sentimenti primordiali cui bisogna sostituire i principi di legalità e di solidarietà per costruire la civiltà dell’amore e dell’amicizia.
In tempi relativamente recenti, l’etnologo Antonino Uccello di Canicattini (SR) nel libro Carcere e mafia individua nei canti dei carcerati non tanto la mafia quanto i modi del “sentire mafioso”, nel senso del Pitrè.
Dei canti dei carcerati segnaliamo due testi, interpretati dalla voce struggente della cantante Rosa Balistreri nel long-plain Amore tu lo sai la vita è amara, utilizzabili in una prospettiva interdisciplinare allargata alla musica:

1. ‘Nfamità

«Lu libru di li ‘nfami t’accattasti
e la prima ‘nfamità mi la facisti.
Non sentu nè rilogiu nè campana,
ca mi sentu ‘ncatinatu comu un cani.
Sentu chiamari mamma e m’allammicu,
chi mamma? m’arrispunni la catina.
Ammazzari vurria cu si vosi:
na palla vecchia e un pugnu di lupara.


2. E ‘nta la Vicaria

E ‘nta la vicaria ci su li guai
ah! massimamenti a cu non avi a cui,
pì tutti vennu amici e pi mia mai
a li grati m’afferru a trari a dui.
Sulu suliddu mi cuntu li guai
e la notti non dormu no, iu pensu a vui,
pensu a dda sfortunata di me matri
a quannu la persi e non la vitti chiui».

A proposito del libro di Uccello, Sciascia osserva che «la mafia non canta; ma il sentimento mafioso, purtroppo, canta anche in tanti siciliani che mafiosi non sono». Quanto agli «attributi del sentire mafioso», il racalmutese ne elenca alcuni: «la repugnanza a ricorrere alla giustizia penale anche per affermare il proprio diritto [...] e anche per difendere la propria sicurezza; l’omertà; la tendenza ad operare di persona o per segreti tramiti ai fini della vendetta o del risarcimento; lo scarso rispetto per l’altrui o pubblica proprietà; l’inclinazione a corrompere i pubblici poteri, cioè gli individui che li rappresentano, la pietà familiare e l’amicizia spinte agli estremi; il disprezzo verso il traditore, il delatore, lo sbirro [...]»
Di sicilianismo è impregnata parte della cultura siciliana, da Verga, Capuana, Pitrè arriva ai loro epigoni, fra cui si distingue lo storico Santi Correnti che da un lato è costretto ad ammettere una realtà isolana fatta «di ombre», ma dall’altro esalta acriticamente la storia della Sicilia attraverso l’apologia dei siciliani illustri e di quelli meno noti:

«Non posso accettare che il popolo siciliano, che ha dato musicisti come Vincenzo Bellini, la cui melodia Wagner definì come “la più pura che sia mai sgorgata da cuore umano”; scrittori come Giovanni Verga e come Giuseppe Tomasi di Lampedusa; drammaturghi come Luigi Pirandello, Premio Nobel 1934; poeti come Salvatore Quasimodo, Premio Nobel 1959; scienziati come Ettore Majorana per la fisica, Filippo Eredìa per la metereologia, e Stanislao Cannizzaro per la chimica; industriali come i Florio; politici come Francesco Crispi, Vittorio Emanuele Orlando, Antonio di San Giuliano e Luigi Sturzo; economisti come Angelo Majorana; educatori come Giuseppe Lombardo Radice, filosofi come Giovanni Gentile e folkloristi come Giuseppe Pitrè, possa essere considerato in blocco come mafioso e sanguinario».

Il prof. Correnti incorre nell’errore contrario dei denigratori della Sicilia: oltre ad elogiare oltremisura i meriti di alcuni siciliani, riduce la mafia a malaffare e violenza, mali di ogni luogo e di ogni tempo:

«Quando si comprenderà che, nella realtà dei fatti, mafia significa “Tangentopoli + sangue”, si sarà fatto un grande passo avanti, verso l’effettiva comprensione della Sicilia d’oggi».

I mali della Sicilia derivano, secondo lui, da degeneri scrittori malelingue che descrivono «ossessivamente» le sue ferite e dall’esosità del biglietto d’aereo. C’è da dedurre che, se ciò non accadesse, la Sicilia diventerebbe automaticamente l’ambita meta del turismo mondiale. Ecco quindi, per il moderno inquisitore, trovati i veri responsabili delle sventure siciliane. Tali scrittori meriterebbero il rogo e i loro libri l’indice. Ci sembra strano che lo storico moralista non abbia strumentalizzato la polemica di Sciascia sui “professionisti dell’antimafia” per attaccare alcuni giudici che nei mass media parlano di mafia e addirittura auspicano, come Giancarlo Caselli, una mobilitazione delle coscienze contro la piovra.

«C’è veramente da sospirare di sollievo, se oggi la Sicilia continui a vivere e a prosperare, se si pensa a quanti, italiani e non italiani, non fanno altro che sottolineare ossessivamente soltanto i suoi lati negativi, come se esistessero soltanto quelli; e se si pensa che non si agevola per nulla l’unica ricchezza di quest’isola, il turismo (si noti che il biglietto aereo Milano-Tunisi ha un costo inferiore a quello Milano-Catania), e che gli scrittori siciliani di maggior nome hanno fatto inspiegabilmente a gara, per dipingere la loro terra natale con i colori più foschi».

La imperdonabile colpa, a suo dire, di tanti autorevoli siciliani, come Giarrizzo, Sciascia, Bufalino, Consolo, è quella di mettere in evidenza esclusivamente le ombre della Sicilia:

«Per Leonardo Sciascia, non c’è nulla che abbia valore positivo in Sicilia: la stessa bellezza dell’isola “è inutile”; la Sicilia è “una vasta area di follia”, e non ha “mai generato uno scienziato, dato che c’era l’Inquisizione”; Verga era “uno scrittore mafioso” e, per soprammercato, “aveva i capelli rossi” (e in realtà erano invece bruni); Luigi Pirandello era uno che scriveva “facilmente e freddamente”; Tomasi di Lampedusa era “in malafede” [...]».

La nostra convinzione è invece che la Sicilia deve sì difendersi da denigratori e critici in malafede (e fra questi più che Giarrizzo, Sciascia, Bufalino e Consolo, metteremmo Moravia, che definendo «ogni siciliano [...] tendenzialmente mafioso» ha ingiustamente criminalizzato l’intero popolo siciliano), ma principalmente, con buona pace dell’emerito sicilianista Medaglia d’Oro della P.I., deve riappropriarsi criticamente della sua storia e della sua cultura per potere restaurare la sua identità falsata dai miti sicilianisti e sporcata dalle secolari incrostazioni della subcultura mafiosa. Una identità che il prof. Gaetano Gucciardo, animato da un radicalismo giustificabile solo con la legittima aspirazione ad uscire dal pantano della mafiosità, vorrebbe “smantellare” per costruirne una moderna ed europea, con il rischio, però, da un lato di recidere le nostre radici sane e dall’altro di omologarsi a culture che tendono all’edonismo, al rifiuto dei valori veri, al darwinismo sociale, alla pura economia di mercato).
Memoria e identità, mafia e mafiosità sono oggetto di riflessione anche a Favara.

Il “favarismo”

La lotta alla mafia e alla mafiosità, come sanno bene le donne del centro “George Sand”, va perseguita specialmente nelle zone di confine della legalità, fra cui Favara.
Una legalità spesso infranta da una minoranza di facinorosi e affaristi cui si contrappone “l’altra Favara” dei numerosi cittadini onesti e democratici che vuole scrollarsi di dosso un’infamante nomea di paese violento. L’ingiusta criminalizzazione, le cui origini mitiche risalgono al ratto delle aragonesi, è frutto del clima positivista del secondo Ottocento di cui è manifestazione l’antropologia criminale di Cesare Lombroso, che pretende di individuare nei tratti somatici i caratteri distintivi dell’uomo delinquente. E da qui ad arrivare, com’è successo per la Sicilia e per Favara, alla teorizzazione della comunità delinquente il passo è breve. Nel secolo scorso, i Moravia denigratori di Favara furono diversi e, cosa grave e dolorosa, erano siciliani: ricordiamo il delegato di PS Rossi che nel 1874 parlò di una mafia favarese «innata e generale», il giudice F. Lestingi che nel 1885 bollò la popolazione di Favara come «assai proclive al sangue e alla mafia», lo scrittore Luigi Pirandello che novellò di una Favara «paese d’assassini, dove ammazzare un uomo era come ammazzare una mosca». Sono giudizi del genere “sbatti il mostro in prima pagina”, criminalizzanti, falsi e inquisitori, da cui chi è amante della verità storica e non del sensazionalismo non può che dissentire.
Bisogna però essere chiari: nascondere per eccesso di sentimento i persistenti aspetti negativi di questa come di qualsiasi altra realtà equivarrebbe a perpetuarli. Amare Favara significa, invece, individuarne le ferite per curarle. Purtroppo però tanti sinceri democratici e antimafiosi cadono involontariamente e con facilità, per “amor di patria”, nella trappola del sicilianismo e della mafiosità.
Chiunque può inciamparvi, si tratta però di capire se ciò accade per amore o per debolezza o per interesse. Anche chi scrive, provenendo da un paese di mafia (e quale paese in Sicilia non lo è?), nel passato ha istintivamente difeso la sua amata Prizzi sottolineando che, dai tempi del capolega Nicola Alongi, ucciso dalla mafia, a quelli odierni del gesuita Ennio Pintacuda, uno dei principali riferimenti nella lotta della Chiesa alla mafia, essa è terra di antimafia. Ma perché nascondere che è anche il paese dell’avvocato Canzoneri, difensore di Luciano Liggio, e del suo collega ed amico Orlando, negli anni Cinquanta difensore di quegli agrari che, oltre alla “carta bollata”, ricorsero alla mafia per fermare il movimento contadino? La storia non fa sconti a nessuno.
Una variazione del sicilianismo è il “favarismo”, inteso come accettazione acritica della memoria storica di Favara, reazione più o meno scomposta agli attacchi esogeni alla città specialmente quando ne viene infangato l’onore, conservazione tout court della propria identità, negazione di evidenti ferite sociali. Sono tutti atteggiamenti che qualificano un sentimento forte e diffuso, testimoniato dai seguenti esempi tratti dall’ambiente scolastico favarese.
Nel febbraio del 1997 apparve sul n. 2 di Voci dall’aula, giornale periodico dell’IPIA “G. Marconi” di Favara, un interessante articolo (non firmato) come presentazione alla novella “Lo storno e l’Angelo Centuno” di Pirandello in cui si afferma che nella città non è diffusa l’omertà né la delinquenza. Pensando alla retata antimafia del precedente mese di novembre, la temeraria dichiarazione si commenta da sé.

«Con l’arresto, avvenuto tempo addietro, di Giovanni Brusca in un villino di c/da Cannatello di proprietà di un favarese, è ripresa a circolare nei giornali e nelle televisioni la solita opinione che mette Favara ed i suoi cittadini in primo piano negli episodi delinquenziali. Con un po’ di retorica potremmo dire che le province di Trapani e Palermo (che pure hanno ospitato il boss) sono a più alta densità mafiosa di noi, perché in quei territori in cui si è pure rifugiato non è stato arrestato. Invece Brusca è stato arrestato in c/da Cannatello, in una zona abitata prevalentemente da favaresi, perché non è stato “protetto” bene o perché l’omertà non è molto diffusa [corsivo ns.]. Per cui, prendendo il problema da questo punto di vista, il fatto dimostra che tanta delinquenza non è poi così diffusa [corsivo ns.]. Ma così facendo, faremmo un torto alla bravura delle forze dell’ordine. E non lo vogliamo, perché bisogna dare il giusto merito a chi ogni giorno combatte la lotta alla mafia rischiando la vita».

Nella parte centrale dell’articolo l’Anonimo lamenta che, ancora oggi, pesa su Favara un periodo nero della sua storia passata e il giudizio severo di alcuni ingenerosi critici e che si generalizzano a tutti i cittadini di Favara le responsabilità delinquenziali di una minoranza di suoi abitanti. Fin qui l’estensore dell’articolo non ha assolutamente torto. Ma alla fine cade in uno sterile vittimismo, frequente nei siciliani, che può portare a ridimensionare o, peggio, ad occultare i mali sociali.

«Vogliamo soltanto mettere in rilievo come ogni volta che succede un fatto delinquenziale ci si lasci influenzare dal passato o da quello che autorevoli personaggi hanno scritto. Senza nulla rimproverare a chi scrive o ha scritto su Favara cose un po’ pesanti (in verità molti fatti eclatanti sono accaduti in passato) vogliamo solo dire che molto spesso tali commenti amplificano in maniera esagerata una certa opinione prevenuta che pur basandosi su una verità dei fatti, diventa molto spesso ingiusta e poco aderente alla realtà. Non abbiamo fatto i conti se a Favara la percentuale dei fatti delittuosi sia più alta che in altri paesi, però pensiamo che se l’uccisione delle tre bimbe di Marsala avveniva a Favara, se l’uccisione delle coppiette invece che a Firenze fosse avvenuta a Favara, allora siamo sicuri che i mostri non sarebbero stati Vinci o Pacciani ma tutti i favaresi, per il solo fatto di essere e risiedere a Favara. Perché se a Favara succede qualcosa di delittuoso non è perché l’uomo sbaglia ma perché i favaresi sono fatti così! [corsivo ns.] Forse l’opinione pubblica non perdonerà mai ai favaresi alcuni fatti avvenuti nel passato».

Per completezza bisogna aggiungere che fra coloro che hanno scritto «su Favara cose un po’ pesanti», ma non criminalizzanti, c’è il maestro Salvatore Bosco, verace maître à penser della Favara democratica e libertaria, autore del coraggioso libro Favara. Le sue miserie le sue disarmonie.
L’Anonimo conclude l’articolo con un’esaltazione, nei modi di Santi Correnti, degli uomini illustri di Favara (e fa bene, anche se Favara non ne ha di bisogno perché la sua gente è onesta e laboriosa come tutto il popolo siciliano; semmai, come avviene in tutti i paesi dell’isola, è vittima di una minoranza di malfattori più o meno in doppiopetto) che nasconde l’inconscia paura di essere ingiustamente assimilato alla mafia; una paura che tanti nostri corregionali provano quando vivono oltre lo stretto.

«Nessuno ricorda che Favara ha avuto illustri cultori del diritto come il Prof. Gaspare Ambrosini che è stato Presidente della Corte Costituzionale, al quale è stato intitolato l’Istituto alberghiero di Favara. Allo stesso modo nessuno stigmatizza il fatto che un giudice che fa parte del pool antimafia di Giancarlo Caselli, dott. Franca Imbergamo, è di Favara. Non resta che dire che gli esempi positivi non fanno notizia mentre quelli negativi sì».

Di recente, il solo aver sommessamente accennato al “sacco edilizio” di Favara ha provocato l’indignata ed esagitata reazione di una collega (per il vero, nei successivi cordiali dialoghi intrattenuti, ci ha chiarito meglio le sue posizioni, fortemente critiche nei riguardi della Favara illegale) che, per affermare il suo intenso sentimento d'appartenenza, è scivolata come l’Anonimo sul “favarismo”. La collega per distrazione non ha tenuto conto di ciò che hanno scritto alcuni suoi compaesani che conoscono molto bene la tormentata storia di questo paese. «La Favara che emerge - scrive infatti G. Alonge nella presentazione al menzionato libro di Bosco - è un paese ai confini della civiltà (corsivo ns.), senza legge e senza Stato dove sempre hanno ragione i più forti [...]. Il clima di Far West che oggi possiamo godere sugli schermi cinematografici fu il clima della Favara del secolo scorso». Si potrebbe obiettare che nel frattempo Favara è cambiata, e per certi aspetti lo è: «La negazione dell’identità della comunità favarese - ci ricorda l’ex assessore ai Beni Culturali Giuseppe Piscopo - arrivava, in un recente passato, alla mancanza quasi totale di toponomastica nei quartieri, cosicché per indicare il luogo di abitazione di una persona, di una famiglia, spesso si ricorreva a generiche espressioni come o Cavatu, darrè u Casteddru, ed era poi un’impresa trovare il recapito e il numero esatto»; ma per altri aspetti no, se dobbiamo prestare fede a ciò che sta scritto nella Carta dei servizi del nostro Istituto che denuncia il «degrado sociale e culturale» della città, l’aumento «vertiginoso» del traffico di droga e del «fenomeno criminoso», la «dignitosa identità, perduta in un degrado sociale e culturale».
Un altro collega, di cui rispettiamo la richiesta d'anonimato, sostiene addirittura che oggi la mafia a Favara non esiste da circa un quindicennio, che esistono solo degli “ominicchi” che ostentano arie da mafioso, che il traffico cittadino della droga e il territorio non sono controllati dalla mafia locale. Sarà vero? Da ciò che sta scritto in uno dei successivi paragrafi sembra di no. È un grande errore fare come lo struzzo perché la mafia è araba fenice, dunque bisogna sempre e attentamente vigilare. E la cultura mafiosa, non esiste anch’essa? Non necessita certo una vista d’aquila per individuare nei comportamenti quotidiani quei sottovalori cui si è accennato.
Oggi la scuola favarese ha il dovere di avviare un’analisi che permetta di svelare la mafiosità insita nella cultura dominante e, per quanto ci riguarda, nell’agire scolastico; di capire che l’orgoglio di essere favaresi o prizzesi o siciliani non aiuta a liberarci dalla mafia.
Oggi, per tagliare il luttuoso filo nero della mafia e per superare la diffusa cultura sicilianista, piuttosto che degli sterili autocompiacimenti sulla memoria convalidata di Lorenzo Airò e sull’identità negata e ora riacquistata di Giuseppe Piscopo (le guide storiche e artistiche sono interessanti e la toponomastica è utile, ma sono insufficienti), Favara ha bisogno di operare con coraggio per realizzare una possibile città per l’uomo in cui i Linticchieddi non siano più manovalanza della delinquenza organizzata, ma normali cittadini con diritti e doveri: il diritto al lavoro onesto e il dovere di contribuire con le proprie forze al progresso sociale; in cui i giovani assumano come droghe i valori universali dell’umanesimo (cristiano e/o illuminista) e non le letali sostanze stupefacenti, e anziché alienarsi nei paradisi artificiali ed effimeri possano vivere in un ambiente reale a misura d’uomo.
La nuova Amministrazione comunale saprà operare in questa direzione? Poiché noi non conosciamo questa misteriosa e affascinante città e non siamo in grado di dare in tal senso alcun suggerimento, ci auguriamo solo che lo slogan di L. Airò, «tutelare, proteggere, arginare il degrado dei Beni Culturali, promuovendone la conoscenza e la fruizione», cominci a diventare realtà e inneschi quel «processo virtuoso di richiamo turistico» di cui parla per Agrigento il prof. Gucciardo; e che la preziosa Biblioteca comunale sia resa presto funzionale per consentire un’agevole consultazione dei suoi volumi, conditio sine qua non si potrebbe sviluppare, sulle orme del venerando maestro Bosco, quella ricerca che sola ci potrà permettere di comprendere alle radici i mali del presente (la ricerca storica, quando non è ricerca di una chimerica età di dei e di eroi o non è motivata da revisionismo opportunista, ha un’indubbia funzione rivoluzionaria perché la comprensione del cammino umano è propedeutica al cambiamento sociale).

Didattica per un’educazione antimafia

Per contribuire alla formazione di una «dignitosa identità» culturale e sociale non sicilianista, che s'identifichi nei valori positivi della polis, nello Stato con le sue leggi e il suo modello democratico, è stato progettato e realizzato il modulo interdisciplinare «Didattica per un’educazione antimafia»: un contributo en passant che altri colleghi potranno sviluppare ulteriormente se avranno migliore fortuna nella consultazione di quel materiale della biblioteca d’Istituto cui non è stato possibile accedere.
Il fine del modulo è quindi l’educazione antimafia, da intendersi come educazione alla legalità, che è in primis rispetto delle regole, senza cui proliferano i poteri più o meno occulti che inquinano le libere istituzioni o finiscono per sostituirsi ai poteri legittimi dello Stato. Neanche la scuola, istituzione deputata ad educare il discente alla legalità, si sottrae a questi pericoli quando viene meno il rispetto delle regole, dalle disposizioni ministeriali al regolamento d’istituto: s'instaura in tal caso l’arbitrio del dittatore o proliferano le camarille o si crea un vuoto di direzione che genera inevitabilmente un caos nell’organizzazione e una pericolosa forma di anomia scolastica che alla lunga può produrre il suicidio dell’istituzione.
Educazione antimafia è democrazia, che è negazione del servilismo. «Qui i servi baciano ancora le mani e ai piedi i padroni, gli dicono voscienza», dice lo scrittore favarese Russello riferendosi alla Sicilia del 1860: pare che questa malefica radice resista ancora. Un servilismo che va ad arricchire quella quinta colonna di cui parla qualche docente. Democrazia, intesa come partecipazione, confronto, ascolto delle ragioni altrui e rispetto delle idee della minoranza. Talvolta, purtroppo, nel rapporto fra dirigente scolastico e insegnanti, fra docenti, fra docente e discenti al dialogo si sostituisce l’imposizione del proprio altisonante timbro di voce, l’arroganza di chi crede nell’onnipotenza delle proprie idee, l’aristocratico contegno di chi si sente investito di una missione eccezionale.
Educazione antimafia è capire che la Sicilia è sì un’isola magnifica nei suoi aspetti paesaggistici, «cuore vitale e pulsante del nostro pianeta: un inno alla gioia - come scrive con titanico spirito beethoveniano il gruppo di studio del Liceo ‘M. L. King’, coordinato dall’infaticabile prof.ssa Luisa Forte, nella relazione su “L’uomo e il mare” presentata al XV Convegno internazionale della Lega Navale Italiana su “L’uomo e l’ambiente marino”- che si esprime in musica, bellezza e natura rigogliosa», ma non è una terra idilliaca: il suono delle canne di lupara e il grido disperato dei disoccupati ne turbano troppo spesso la quiete. La Sicilia è piuttosto un po’ come il suo mare: «passione, sentimento, paura, incomprensione. Questo è il mare di Sicilia; mare di pianto...». La Sicilia è una terra abitata, per fortuna, da comuni esseri viventi con una propria cultura, frutto di millenarie vicende umane, storicamente determinata e mutabile, e non da individui di una razza particolare il cui comportamento sarebbe determinato da tare «ereditarie o genetiche» e il cui «contesto culturale, sociale e morale» sarebbe «improntato [...] sulla struttura geofisica insulare». Sono tesi, quest’ultime, che richiamano quelle conservatrici dell’aristocratico don Fabrizio Salina del “Gattopardo”: «L’ambiente, il clima, il paesaggio. Queste sono le forze che insieme e forse più che le dominazioni estranee e gl’incongrui stupri hanno formato l’animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra mollezza lasciva e asprezza dannata...».

«Nella storia della biologia - sostiene il nostro gruppo di studio - il ruolo attribuito all’ambiente, circa l’influenza sui caratteri comportamentali dell’uomo, è sempre stato contrapposto a quello attribuito alle determinanti ereditarie o genetiche; ma nonostante il netto contrasto delle tesi proposte ora dall’una ora dall’altra, si è giunti all’accettazione comune che la complessità dei caratteri e dei comportamenti dell’essere umano dipenda, oltre che dal patrimonio ereditario, anche dall’ambiente in cui esso vive.
Così un isolano sarà portato a porre la sua esistenza non come un comune essere vivente, ma come un essere influenzato da quello che è il contesto culturale, sociale, morale che è stato improntato proprio sulla struttura geofisica insulare del territorio in cui vive».

Dalle convinzioni di don Fabrizio deriva un profondo quanto opportunista pessimismo storico, per il quale sarebbe impossibile «incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale»; dalle nostre convinzioni, invece, discende che i comportamenti deteriori sono modificabili, i retaggi culturali negativi superabili se si abbandona il sogno e l’autoinganno e, invece, si intraprende la strada dell’analisi autocritica e della trasformazione sociale; se si insegna che il rapporto fra i siciliani e la loro isola è spiegabile comprendendone la storia.
Educazione antimafia in classe deve essere un tentativo di far comprendere il valore della democrazia e del rispetto delle regole, cercando di attuarle innanzitutto nel corso del lavoro didattico quotidiano.
Nel modulo si dà ampio spazio ad avvenimenti, a studi e ad autori della provincia di Agrigento e in particolare di Favara nel tentativo di calare le tematiche nella storia e nella cultura a noi più vicine.

Gli alunni della IV AM - cui va il mio apprezzamento anche per l’interesse mostrato in un momento di straordinario impegno di studio in vista degli esami di maturità -, divisi in tre gruppi, hanno approfondito in particolare una delle seguenti sezioni: Educazione civica e disposizioni antimafia , Etimologia, definizioni e storia della mafia , Riferimenti letterari del fenomeno mafioso .


1. EDUCAZIONE CIVICA E DISPOSIZIONI ANTIMAFIA


Cultura di legalità vuol dire ricostruire le regole: nella società, nelle istituzioni, nell’economia, nell’informazione. Senza regole crescono i poteri oscuri e arroganti, la criminalità più o meno in doppiopetto, la politica inquinata, l’informazione «drogata» e disonesta. (Don L. Ciotti)

Un grave e frequente errore è il ritenere la lotta alla mafia un esclusivo compito delle forze dell’ordine, della magistratura, del parlamento e del governo, e non della scuola. Ma così non è. La lotta alla mafia è sì di natura repressiva e principalmente legata ad una politica di sviluppo economico del Meridione, ma non sarà mai vincente se non è altresì rivoluzione culturale, che la scuola è chiamata a promuovere.
Fin dal 13 giugno 1958, con l’introduzione dell’educazione civica, la scuola italiana ha operato un’inequivocabile scelta a favore dell’educazione umana e civile dell’alunno; educazione però non pienamente realizzabile fino a quando nella cultura del docente sopravviveranno i sottovalori sicilianisti, fino a quando nella scuola non si affermerà la piena democrazia e una reale trasparenza, fino a quando non si svilupperà, come ha scritto di recente il collega Ernesto Fichera, «una coscienza civica di rispetto del bene collettivo».
Da quel 1958, pur con dei limiti e degli insuccessi, sono stati compiuti notevoli progressi sia sul piano della presa di coscienza collettiva sia su quello delle disposizioni ufficiali (leggi, decreti, circolari ecc.) cui in breve vogliamo accennare per una riflessione collettiva.
La Costituzione italiana (di cui ricorre il cinquantesimo anniversario) e la rivolta studentesca del Sessantotto (trentesimo anniversario) sono due momenti importanti della storia della prima Repubblica: la prima afferma fin dal primo articolo il carattere democratico del nuovo Stato (e della scuola) sorto dalle ceneri della dittatura fascista; la seconda iniziò un processo di democratizzazione della vecchia scuola gentiliana che ebbe un suo primo punto d’approdo nel D.P.R. 31 maggio 1974, n. 416: Istituzione e riordino di organi collegiali della scuola materna, elementare, secondaria e artistica . Tutto nella sostanza non è stato attuato, ma indubbiamente i due avvenimenti, di grande portata storica, rappresentano una conquista democratica da salvaguardare.
Momento importante dell’evoluzione della scuola siciliana per la promozione e diffusione di una cultura antimafia è la legge regionale 4 giugno 1980, n. 51: «La Regione siciliana, al fine di contribuire alla lotta contro la mafia anche sul piano educativo e di agevolare i giovani nello studio e nell’approfondimento dei vari aspetti e manifestazioni del fenomeno mafioso, promuove nelle scuole siciliane d'ogni ordine e grado e nelle facoltà universitarie di lettere, giurisprudenza, magistero ed economia e commercio una serie di iniziative tendenti a sviluppare la coscienza civile democratica, mediante ricerche, lavori individuali e di gruppo, indagini, seminari, dibattiti, cineforum, mostre fotografiche ed ogni altra attività utile ad una reale conoscenza del problema nelle sue implicazioni storiche, socio-economiche, politiche e di costume» (art. 1).
Sul piano nazionale è stata invece la circolare n. 302 del 25 ottobre 1993 emanata dal M.P.I. ad avere indirizzato la scuola verso la presa di una coscienza antimafia:

«Il contesto storico-sociale nel quale la scuola italiana si trova attualmente ad operare, richiede da parte di tutti gli operatori scolastici una sempre più rigorosa e puntuale attenzione per alcuni aspetti assai preoccupanti delle vicende nazionali, che sembrano registrare una obiettiva diminuzione della consapevolezza del valore della legalità.
Ciò va collegato principalmente alla crisi di valori, alla quale anche il Capo dello Stato ha fatto riferimento in un suo saluto al mondo della scuola, con un’analisi dolorosa, che l'ha indotto a parlare di “delitti atroci in Patria con la morte di persone che avevano posto la loro vita al servizio della comunità, dello Stato, uomini investiti di responsabilità pubblica colpiti dalla legge perché prevaricatori, profittatori, disonesti: esempi desolanti di crisi di valori morali”.
Pertanto, la responsabilità, che la scuola si è sempre assunta, di educare i giovani alla società assume oggi aspetti di particolare coinvolgimento e va concretizzata in un rafforzamento dell’educazione alla legalità» [...].

Un accenno merita, infine, la Carta dei servizi scolastici, che nel paragrafo 7.6 detta gli strumenti per un trasparente ed efficiente servizio: il “Progetto educativo d’istituto” (PEI) e il “Regolamento d’istituto”. Tali strumenti non sempre sono aggiornati o utilizzabili o rispettati, ma ciò non deve essere un alibi per rinunciare ad operare nell’interesse dell’utenza.
Il PEI del’IPIA “G. Marconi” si propone che «gli obiettivi legati ai valori civili e culturali saranno perseguiti attraverso le attività disciplinari integrative programmate nel “Progetto Giovani 2000”, “Progetto CIC”, “Progetto Educazione Stradale” e riguarderanno la educazione alla legalità e al rispetto dei diritti umani, alla salute e al rispetto dell’ambiente» (art. 58). Fra le attività previste dal “Progetto Giovani 2000” sono inseriti «un convegno sulla “Droga”» ed «incontri per parlare di “Mafia” con studiosi del settore» (art. 58).
La “Carta dei servizi” dell’Istituto “M. L. King” «si impegna a garantire la regolarità e la continuità del servizio e delle attività educative, anche in situazioni di conflitto sindacale nel rispetto dei principi e delle norme sancite dalla legge e in applicazione delle disposizioni contrattuali in materia» (art. 2.2). In coerenza con questo dettato, quest’anno il nostro Istituto, nonostante sia afflitto da un annoso conflitto di cui ci auguriamo finalmente una soluzione, ha saputo garantire, pur con dei limiti, un sufficiente servizio che in alcuni momenti ed aspetti (come la partecipazione all’iniziativa “Cronaca in classe” del Giornale di Sicilia, cui ha dato un notevole contributo di coordinamento il prof. Gaetano Gucciardo) è stato ottimo.
L’articolo 5.1 afferma che «tutti i soggetti erogatori del servizio, Preside, personale docente, personale A.T.A., personale ausiliario, utenti e rispettive famiglie, per realizzare al meglio quanto previsto dalla “Carta dei servizi” devono interagire e collaborare [...]». Interazione e collaborazione sono il presupposto per un servizio che voglia essere efficiente di fatto e non nelle dichiarazioni.
L’art. 6 si sofferma sulla «libertà d'insegnamento ed aggiornamento del personale». La «libertà d’insegnamento del docente» deve essere «piena» e senza interferenze.
La parte della Carta dei servizi scolastici che più c'interessa è Il P.E.I., che in un suo paragrafo garantisce la libertà d’insegnamento anche attraverso “attività opzionali”: «Le attività opzionali sono programmate e guidate da gruppi di docenti o da docenti singoli finalizzate a fornire agli alunni occasioni di completamento della loro formazione culturale di base e di sviluppo delle loro attitudini e la formazione di una coscienza comune». Da quest’ultima discende l’utilità della pubblicazione del libro “Alla ricerca delle radici perdute”: per reciderle, s’intende, in quelle parti che hanno generato la deteriore cultura sicilianista.
Per raggiungere le tredici finalità educative e didattiche del P.E.I., «l’Istituto intende sviluppare in particolare [...] le questioni sociali: razzismo, emarginazione, mafia; informazione, sensibilizzazione e prevenzione del problema della tossicodipendenza». In relazione a quest’ultimo argomento il Progetto prevede, fra l’altro, di «analizzare il fenomeno criminoso derivante dal commercio della droga nonché dei suoi effetti a livello sociale». Il Collegio dei docenti ha mostrato così di aver compreso il rapporto che esiste tra droga criminalità e mafia: rapporto negato da alcuni docenti, ma drammaticamente esistente nella realtà favarese.

«L’ambiente favarese, non offrendo, purtroppo, una sua dignitosa identità, perduta in un degrado sociale e culturale (sottolineatura e corsivo ns.), pesa come una cappa di piombo sui giovani cittadini che trascorrono “ni li firriati” di Via Kennedy o “ni li scaluna” di via Roma, in modo non sempre edificante, se non indecoroso, la loro giornata».
«Il traffico della droga che aumenta vertiginosamente è il pericolo maggiore con cui bisogna confrontarsi e lottare ogni giorno in quanto il fenomeno ha ormai superato il livello di guardia.
La rapidità e l’imprevedibilità della diffusione della droga portano la scuola a proporsi come una delle poche alternative valide per impedire d'intraprendere una via senza ritorno.
L’Istituto si propone, quindi, non solo l’inserimento e la piena integrazione sociale a tutti i livelli dei suoi alunni, ma anche il pieno sviluppo dei giovani riguardo l’area psicomotoria e socio-affettiva.
La scuola intende così raccogliere le istanze e offrire una risposta alle insoddisfazioni cognitive e morali degli alunni, favorire i reali interessi e dare un’adeguata sistemazione alle stimolazioni provenienti dall’esterno.
Pertanto l’Istituto elabora, per offrirlo alla comunità, l’annesso piano educativo e didattico».

Le disposizioni cui si è frettolosamente accennato rappresentano gli strumenti di base da utilizzare per imprimere un’ulteriore svolta al processo di rinnovamento sociale, a dispetto dei pessimismi più o meno interessati di ieri e di oggi e ai ricorrenti tentativi di delegittimare un’improrogabile lotta di progresso civile.


2. ETIMOLOGIA, DEFINIZIONI E STORIA DELLA MAFIA

Dovremo confrontarci con la mafia ancora a lungo tempo, ma non per l’eternità: perché la mafia, come tutti i fenomeni umani, ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi una sua fine
Giovanni Falcone
2.1 Etimologia, denominazioni e definizioni

Etimologia

Le ipotesi sulle origini del termine mafia sono diverse. Alcuni sostengono una derivazione dall’arabo o dal greco o dal piemontese (Mortillaro) o dal toscano; altri da acrostici o dal nome di una strega siciliana del Seicento o da Turiddu Mafia, fondatore dell’organizzazione o dal grido disperato di una madre siciliana per la violenza subita dalla figlia: m[i]a-fi[gli]a. Il termine in ogni modo comparve ufficialmente per la prima volta nel 1862 nella commedia di Giuseppe Rizzotto, I mafiusi di la Vicaria di Palermu.
«La parola siciliana mafia - secondo Santi Correnti - non deriva dall’arabo né da fantastici acronimi perché deriva dal toscano, dove esiste da secoli nella forma con due “f”, maffia: e cosi fu introdotta in Sicilia subito dopo l’Unità. In toscano essa significa “miseria”, oppure “ostentazione vistosa, spocchia”; e nella forma con due “f”, maffia, essa fu adoperata dagli studiosi e dagli scrittori siciliani come Giuseppe Alongi, Napoleone Colajanni, Giuseppe De Felice, Nino Martoglio che per primi si occuparono di questo scottante problema sociale; ed ancora nel 1930 lo scrittore siciliano E. M. Morelli pubblicava a Palermo, con la casa editrice S. Domino, un romanzo intitolato I delitti della maffia (con due “f”)».

Denominazioni

La mafia, secondo il sociologo Pino Arlacchi, è «un fenomeno economico, sociale e politico molto vasto, distribuito in molte regioni e in molte parti del mondo». Esiste una mafia giapponese, la Yakuza, una mafia cinese, le Triadi, una mafia americana, una mafia russa, una mafia italiana, la Camorra campana, la Sacra Corona Unita pugliese, la ‘ndrangheta calabrese e Cosa Nostra siciliana.
Nell’agrigentino è nata un’organizzazione esterna a Cosa Nostra: la Stidda. Con il termine Stiddari vengono indicati i suoi affiliati.
Caso forse unico, a Favara l’associazione mafiosa ha assunto nella sua evoluzione storica diversi e suggestivi nomi che ne scandiscono le fasi evolutive o, all’interno della stessa fase, ne indicano le contrapposizioni: Cavalleria, Ganna, Cappuccia, Fratellanza, Cudi Chiatti, Pampini, Linticchieddi.

Definizioni

Il vocabolario Zingarelli dà due definizioni di mafia: «1 In Sicilia, organizzazione criminosa, retta dalla legge della segretezza e dell’omertà, che ricorre a intimidazioni, estorsioni, sequestri di persona e omicidi al servizio di interessi economici privati. 2 (est.) Gruppo di persone unite per conseguire o conservare con ogni mezzo i propri interessi particolari, anche a danno di quelli pubblici: la _ della scuola».
Secondo Leonardo Sciascia «la mafia è un “sistema” che in Sicilia contiene e muove gli interessi economici e di potere di una classe che approssimativamente possiamo dire borghese; e non sorge e si sviluppa nel “vuoto” dello Stato (cioè quando lo Stato, con le sue leggi e le sue funzioni, è debole o manca) ma “dentro” lo Stato. La mafia insomma altro non è che una borghesia parassitaria, una borghesia che non imprende ma soltanto sfrutta. Il giorno della civetta, in effetti, non è che un “per esempio” di questa definizione» (Avvertenza a Il giorno della civetta, 1961).
Umberto Santino, direttore del Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato” di Palermo e uno dei veterani (e missionario) della ricerca sulla mafia, dà della mafia una definizione completa e chiara: la mafia è «un insieme di organizzazioni criminali [...] che agiscono all’interno di un vasto e ramificato contesto relazionale, configurando un sistema di violenza e di illegalità finalizzato all’accumulazione del capitale e all’acquisizione e gestione di posizioni di potere, che si avvale di un codice culturale e gode di un certo consenso sociale».
2.2 Storia

Nella sua lunga evoluzione la mafia attraversa quattro stadi: lo stadio preistorico, lo stadio rurale, lo stadio urbano-imprenditoriale, lo stadio internazionale-finanziario.

La protomafia

Il primo lungo stadio di «incubazione» va dal 1500 alla metà del 1800.
Secondo Santino, per «fenomeni premafiosi» sono da intendersi «le attività delittuose regolarmente impunite di gruppi armati al servizio dei baroni della Sicilia occidentale e le finalità accumulative di alcune forme delittuose, come per esempio i sequestri di persona seguiti da richieste di riscatto, i furti di animali destinati alla macellazione clandestina (abigeato), la riscossione “pizzi” documentata al mercato della Vucciria di Palermo».
Secondo Santi Correnti, nel Cinquecento la mafia era presente anche in Spagna, in Lombardia, in Campania e in Calabria: «Al periodo spagnolo appartiene la triplice organizzazione della malavita meridionale, secondo la nota leggenda dei tre fratelli spagnoli Osso, Mastrosso e Scarcagnosso, che per amore di giustizia si trasferirono dalla Spagna nell’Italia meridionale, e fondarono la camorra in Campania, la ‘ndrangheta in Calabria, e la mafia in Sicilia. Leggende a parte, gli spagnoli possedevano già nel secolo XV le loro Onorate società (e infatti le chiamavano “Società degli uomini d’onore”) nelle carduñas che risultano operanti a Toledo dal 1412».
Una società segreta affetta da mafiosità nacque nella Sicilia del Sei-Settecento: i Beati Paoli. La setta, di cui parlò per la prima volta il Marchese di Villabianca, è descritta come un'organizzazione che ha lo scopo di difendere i deboli dalle prepotenze del baronaggio. «Questi Beati Paoli o sia scellerati uomini - scrive il Marchese negli Opuscoli palermitani -, a mio credere che da figliolo ebbi da intendere, non sono tanto antichi, e forse più d’ogni altro luogo si fecero a sentire nella città di Palermo a causa che lo sgherrismo e il valentismo era bastantemente coltivato dalle persone potenti, e da nostri Baroni del regno. Le persone mezzane quindi e basse non potendo fare tal spesa di mantenere Sicarij si formavano il vanto col procedere empiamente da per sé stessi colle lor mani. Tutti effetti e male allora conseguenza della debolezza che si conosceva nel braccio della Giustizia» .

La mafia rurale

La fase rurale va dalla formazione dello Stato unitario al 1950 circa.
Nel 1860, Garibaldi riuscì a sconfiggere i Borboni perché in Sicilia trovò l’appoggio di migliaia di uomini, molti dei quali, secondo lo storico F. Renda, erano «individui catalogabili come mafiosi», altri invece patrioti opportunisti dell’ultim’ora come il barone di Castro del racconto Il Quarantotto o il Sedara del romanzo Il Gattopardo o il medico-poliziotto Bellavia di Favara.
I siciliani seguirono i «cosiddetti uomini di rispetto», scrive il favarese Antonio Russello, che nell’interessante dialogo fra Garibaldi e Bixio dell’opera Lo sfascismo allunga sottilmente lo sguardo fino ai giorni nostri per accennare a quella che Enzo Biagi ha qualche anno fa definito la “disunità d’Italia”.

«Il Bixio al suo generale:
“Mentre state meditando, l’Italia la fanno gli altri”.
Il generale a Bixio:
“Metà noi e metà gli altri. Il difficile sarà unire queste due metà, per l’ostacolo in mezzo, gl’interessi, il potere. Guardatelo Bixio, il potere. Lo vedrete salire... mentre lì stanno più che parlando, mangiando...”
“Salir da dove, Generale?”
“Dalle parole che non si dicono e che nascondono quelle che si dicono”.
Mentre escon parole belle dalla posizione di comodità della tavola imbandita in cui è il Re, dalla posizione di scomodità sotto l’olivo in cui è, Garibaldi prima ha raccolto le superstiti camicie rosse, come l’Innominato dopo la sua conversione che fece il discorso di congedo ai suoi bravi: se volessero o rimaner bravi o diventar persone, e allo stesso modo ai garibaldini disse che data l’impossibilità d’esser aggregati all’esercito regio, lui li scioglieva dal suo obbligo; liberi ora, o di restare o di non restare persone oneste.
Poi prese in mano carta penna e calamaio e scrisse delle noterelle ovvero un dossier su questi italiani che aveva mezzi-liberati.
“Ho colto un’esperienza amara dalla Sicilia, da queste solitudini del Sud. Qui i servi baciano ancora le mani e ai piedi i padroni, gli dicono voscienza.
C’ero venuto per liberarli da questa scostumanza, da questa servilità borbonica. Quando gli ho detto che in questo costume gli stavan male, mi sento:
“Non tanto male, generà, coi borboni il vestito ci è abbastanza largo, non ci hanno mai vestiti da surdate”.
Gli ho risposto: “E vi hanno lasciato addosso quello da briganti”. E m’hanno detto: “Tra chiste e chille nun fa differenza”.
Ed io ingenuo, che bei programmi che avevo.
Trasformare il tradizionale sistema delle clientele.
Invece i siciliani erano sempre al seguito dei feudatari, dei cosiddetti uomini di rispetto. Nei miei proclami dissi di togliere le terre ai signori, darle ai contadini. I contadini capirono: tagliar le teste ai signori. Tutto all’incontrario, dall’altra parte della legge. Non sapevano leggere. Dai monti scesero nei borghi e sgozzarono tutti i proprietari. Vennero al piano, sotto pelli di pecore.
Ed erano lupi.
A Bronte intimai perciò la legge marziale. Ne feci fucilare. Per questo gli storici diranno che ero un carnefice e non il Santo che hanno detto, il San Garibaldi. Non capiranno gli storici che la legge qui era cosa incomprensibile. Bastava fossero andati tutti a scuola per capirla.
Invece mi dissero: ”Signo’, la scuola è chidda brutta cosa che ci vanno solo li galantomini pi’ farisi scriviri li carti ca sunnu chiddi che ci mandano per le tasse e che chiamano alla leva militare”.
Questa la Sicilia; non dar soldi, non pagar imposte, voler solo impieghi. Ho visto che se delle domande d’impiego se ne facesse tela, vi sarebbero da coprire tutta l’isola.
Vedo fra cent’anni quest’unità divisa a metà e una parte di noi stessi che vi specula ancora, vi fa calcoli sopra a lasciar l’altra metà a morir di fame”.
Questo il generale sentiva nelle notti di luna, nello sterminato silenzio di quelle terre, l’irrefrenabile desiderio di farne una sintesi col settentrione.
Ma un’altra voce nella coscienza l’avvertiva del contrario. Aveva sognato che di natura divina era la sintesi dei due mondi, ma di pari divina l’indipendenza individuale dell’uno e dell’altro. Far bene l’una cosa senza esser certi che far l’altra fosse un male: questo lo faceva impazzire».

Nel 1868, appena un lustro dopo la pubblicazione della commedia I mafiusi di la Vicaria, l’ebdomadario liberale Il Progresso effettivo, pubblicato a Favara e poi a Girgenti, utilizzava già il termine mafia e metteva in luce le connivenze della magistratura con la mafia e il rapporto fra bassa ed alta mafia che con lungimiranza anticipava il rapporto del brigante Domenico Sajeva con il barone Celauro e i fratelli Trainiti e gli esiti dei loro processi: «Il mafioso ruba, uccide, danneggia il campo, calunnia; e la mafia lo nasconde, lo nutre, lo protegge e salva dal rigor della legge. Il giudice è visitato da consueta persona che raccomanda il malandrino ricercato dalla giustizia; la raccomandazione è accompagnata da uno sguardo, da un sorriso più eloquente delle parole, e se accade che il giudice non smetta il rigore, riceve una letterina anonima, e il dì del giudizio il giudice vede il suo visitatore in prima fila dell’uditorio, che tien fisso l’occhio sopra di lui».
Presto si arrivò, secondo lo storico G. C. Marino, ad un «rapporto organico tra la mafia e la classe politica siciliana, consolidatosi, dopo il 1860, in una vera e propria “forma di egemonia” che, inizialmente contrastata dalla Destra storica, sarebbe stata poi “legittimata” dai nuovi equilibri di potere istauratisi, dopo il 1876, con l’avvio dell’esperienza di governo della Sinistra parlamentare». Al passaggio dai governi della Destra a quelli della Sinistra diede un contributo decisivo l’opposizione del 1874-’75, che nel girgentino era rappresentata da uno schieramento che andava dai liberali progressisti, ai repubblicani, agli internazionalisti, alle logge massoniche. Ciò che univa un fronte così composito era la lotta al brigantaggio condotta da un’ottica sicilianista che mal sopportava la soluzione militare statale per la repressione del brigantaggio, preferendo una soluzione basata sull’autogestione di milizie private da parte del ceto proprietario. Nel territorio di Favara scorrazzava in quegli anni la banda del temibile e gaudente Sajeva, protetto dall’alta mafia di Girgenti.
Il 4 Settembre 1874, il delegato di P.S di Favara Rossi, dirigente le «Squadriglie miste per la repressione del malandrinaggio», inviava un’informativa al prefetto della Provincia di Girgenti avente in oggetto Notizie sulla mafia, che così esordisce: «Purtroppo anche in questo Comune e forse più che in altri della Provincia e da più lunga era (lo provano i nefandi fatti di sangue e di rapina che in ogni tempo e con istraordinaria audacia vi si sono consumati ed i verdetti, mostruosi [...?], d’incolpabilità che vi han fatto seguito) esiste la mafia; una mafia non ordinata ad associazione, almeno attualmente, né retta da norme fisse, ma esiste...». Il delegato Rossi si sbagliava di grosso, nel 1883 infatti fu scoperta una potentissima associazione mafiosa, la Fratellanza, a carattere provinciale, che aveva il suo epicentro a Girgenti, Favara e Canicattì, ma che si diramava attraverso singoli affiliati in diversi paesi del girgentino. «L’arresto del 1883 - scrive Bosco -, in cui furono coinvolti più di duecento individui, di cui il maggior numero di Favara, era stato preceduto da numerosi fatti di sangue, da abigeati, rapine e grassazioni d’ogni sorta». L’avvenimento fu oggetto di studi da parte degli studiosi del tempo, fra cui F. Lestingi che scrisse un prezioso documento, L’associazione della Fratellanza nella provincia di Girgenti, apparso nel 1885 sull’Archivio di psichiatria, scienze penali ed antropologia criminale per servire allo studio dell’uomo delinquente, la prestigiosa rivista trimestrale diretta da C. Lombroso, prof. di Medicina Legale a Torino, E. Ferri, prof. di Diritto Penale a Siena e R. Garofalo, sost. proc. del Re a Napoli:

«Se ne parlò tanto al tempo della scoperta, come di vasta e pericolosissima associazione di malfattori che aveva seminato stragi e rovine e maggiori ne minacciava; si lesse non ha guari sui giornali che quella congerie di processi sul conto di parecchie centinaia d’imputati, per ragioni di pubblica sicurezza era stata rinviata per la discussione a Catania, dove si stava preparando un’aula apposita nella vasta chiesa de’ Benedettini: tutte dicerie senza fondamento. Vale dunque il pregio di sapere che cosa fosse e quali i risultamenti della laboriosa istruttoria penale.
In Sicilia, fa d’uopo confessarlo, è difficile serbare la misura, ed è difficile tanto ai cittadini, quanto ai funzionari pubblici. A quelli per eccesso d’immaginazione, a questi per mancanza di calma o di energia. Così accade che qualsivoglia avvenimento scuota le fibre mobilissime di quegli ardenti isolani e li esalti, e non sempre risparmi coloro che, forse consci della propria responsabilità, temono l’accusa di avere male antiveduto o di mostrarsi deboli nel reprimere.
Non solo ora, ma sempre, non solo in Sicilia, ma dovunque, appaiono i germi del male raccolti in organismi, combattenti gli organismi del bene, personificati nello Stato. Sono i bacilli del corpo sociale, e guai a lasciarli attecchire! O che tali associazioni si derivino dalla simpatia e dalla consuetudine che spinge i malvagi ad associarsi per compiere il male, non altrimenti che i virtuosi per il bene; o da libertà precoci, di cui i popoli impreparati abusano come fanciulli; o da poca saviezza nei governanti locali nel saper contemperare la libertà all’ordine, o da tutte queste cause confluenti, è certo che in Sicilia cresce vigorosa la mala pianta che sotto il nome di mafia diffondesi soprattutto in quei ceti nei quali si preferisce l’ozio al lavoro, la prepotenza alla moderazione, vizi dai quali non ripugnano anche taluni che la nascita, un’apparenza di coltura, un certo lusso di vita, talvolta anche eccessivo, farebbero supporre da essa lontani. È un modo come un altro per vincere gli emuli, per raggiungere cariche, ricchezze, clientela e fino suffragi elettorali [...]
Quest'associazione si era diffusa più in quei comuni dove aveva ritrovato terreno più adatto, per frequenza di reati. Da ciò la maggiore diffusione nel comune di Favara...».

A fine secolo si sviluppò il primo movimento organizzato contro la mafia del feudo: i fasci dei lavoratori (1892-1894). Ecco come Luigi Pirandello nel romanzo I vecchi e i giovani ci descrive le condizioni di vita del proletariato e lo stato della giustizia e dell’ordine pubblico nella provincia di Girgenti.

«Va’ ad Aragona, a due passi da Girgenti; va’ a Favara, a Grotte, a Casteltermini, a Campobello... Paesi di contadini e solfaraj, poveri analfabeti. Quattromila, soltanto a Casteltermini! Ci sono stato la settimana scorsa, ho assistito all’inaugurazione del Fascio. [...]
A Girgenti, solo i tribunali e i circoli d’Assise davano da fare veramente, aperti com’erano tutto l’anno. Su al Culmo delle Forche il carcere di San Vito rigurgitava sempre di detenuti, che talvolta dovevano aspettare tre o quattro anni per essere giudicati. E meno male che l’innocenza, nel maggior numero dei casi, di questo forzato indugio non aveva a patire. La città era piuttosto tranquilla; ma nelle campagne e nei paesi della provincia i reati di sangue, aperti o per mandato, per risse improvvise o per vendette meditate, e le grassazioni e l’abigeato e i sequestri di persona e i ricatti erano continui e innumerevoli, frutto della miseria, della selvaggia ignoranza, dell’asprezza delle fatiche che abbrutivano, delle vaste solitudini arse, brulle e mal guardate. In piazza Sant’Anna, ov’erano i tribunali, nel centro della città, s’affollavano i clienti di tutta la provincia, gente tozza e rude, cotta dal sole, gesticolante in mille guise vivacemente espressive: proprietarii di campagne e di zolfare in lite con gli affittuarii o coi magazzinieri di Porto Empedocle, e sensali e affaristi e avvocati e galoppini; s’affollavano storditi i paesani zotici di Grotte o di Favara, di Racalmuto o di Raffadali o di Montaperto, solfaraj e contadini, la maggior parte, dalle facce terrigne e arsicce, dagli occhi lupigni, vestiti dei grevi abiti di festa di panno turchino, con berrette di strana foggia: a cono, di velluto; a calza, di cotone; o padovane; con cerchietti o catenaccetti d’oro agli orecchi; venuti per testimoniare o per assistere i parenti carcerati».

Favara anticipò di due anni quelle lotte: nel giugno 1890 fu, infatti, teatro di una sommossa popolare contro i galantuomini, che, come scrisse qualche anno prima G. Alongi, «riuniti in un cosiddetto casino di compagnia, come in un campo chiuso, comandavano a bacchetta operai e contadini, creati dal buon Dio per ubbidire e servire». Ecco la minuziosa descrizione che ne dà Salvatore Bosco:

«Le prime avvisaglie calde per qualche cosa che stava per accadere si ebbero il 22 giugno di quell’anno 1890; due giorni dopo, festa di san Giovanni, di pomeriggio, le vie cominciarono a brulicare di malcontenti e affamati; verso le ore sei e mezza uomini, donne, bambini e vecchi si riversarono in piazza Cavour agitando bandiere, minacciando e gridando a squarciagola. La Piazza divenne subito un centro di attrazione; col passar dei minuti vi affluirono operai di tutte le categorie che occuparono perfino le vie adiacenti. Un cronista del “Giornale di Sicilia” calcolò che non meno di cinquemila individui furono presenti a quella dimostrazione; ma qualche vecchio che ricorda ancora la viva narrazione fattagli da persone presenti alla rivolta, asserisce che dovevano essere ancora più numerosi. Comunque, in un paese allora di circa diciottomila abitanti, è certo che circa un terzo partecipò a quella sommossa.
Il sindaco, don Giovannino Giudice, immediatamente riunì la giunta allo scopo di deliberare qualche provvedimento atto a calmare gli animi. Nello stesso tempo chiese l’intervento di tutta la forza locale. Si affacciò dal balcone del municipio, allora nell’attuale biblioteca comunale, promettendo che si sarebbe subito provveduto per il meglio, a favore di tutti i lavoratori, e chiese la calma. In sulle prime ottenne un perfetto silenzio e gli operai si misero in ascolto, quasi come se volessero trattare, ma subito dalla immensa folla inferocita, e fortemente incredula, partirono fischi e alte voci di dissenso. Intanto s’eran fatte le sette e mezzo e l’agitazione assunse un alto grado di parossismo e di tumultuosità; nel frastuono si udivano alcune voci alte e roventi che conclamavano punizioni da infliggere ai benestanti; fra grida, imprecazioni e minacce la marea furente si diresse alla “Casa di Compagnia”, allora detta Casino dei Civili. Vi salirono una trentina di rivoltosi fra cui alcune donne ardite e non meno degli uomini esasperate e decise. I soci presenti se la squagliarono da una porticina laterale, sottraendosi, così, al furore ed alla rabbia del popolo. Immediatamente furono rotti vetri, danneggiati gli arredi e, come se ciò non bastasse, onde completare l’opera devastatrice, buttarono mobili, sedie ed altro materiale bruciabile nella piazza sottostante; indi fecero d’ogni cosa un mucchio solo, lo cosparsero di petrolio, trovato nello stesso Casino, e v’appiccarono il fuoco che in qualche ora ridusse il tutto in alcuni pugni di cenere.
Intanto arrivarono i primi rinforzi da Girgenti, e i carabinieri locali, che prudentemente sino ad allora s’eran tenuti in disparte, cominciarono ad operare i primi arresti; ma la maggior parte della folla reagì energicamente per non farsi agguantare. Fu a questo punto che L. D. St., anch’egli lavoratore delle miniere, immerse un lungo coltello nel ventre al carabiniere Piana, ferendolo tanto gravemente da far spargere la voce che fosse stato senz’altro ucciso. Il sottotenente Fernando Magni, ricevette un colpo di bastone sulla testa e fu messo fuori servizio; altri due carabinieri, Guerci e Strada, ebbero ferite d’arma da taglio piuttosto leggere.
Dopo un paio d’ore arrivò una compagnia di soldati da Girgenti e la folla si allontanò dalla piazza, ma formando assembramenti minacciosi che per tutta la notte, in tutte le vie, fecero temere la continuazione della rivolta. Arrivarono anche il capitano dei carabinieri e due delegati di P.S. con molti militi a cavallo; ebbero luogo gli arresti di settanta individui, fra cui sei donne e molti giovani intorno ai diciotto anni, che forse non avevano preso parte ai tumulti. Il mattino seguente Favara aveva l’aspetto d’un paese deserto, la maggior parte degli abitanti spontaneamente si era rifugiata nelle campagne e nei paesi vicini.
La sera del giorno successivo al municipio ebbe luogo una conferenza alla quale presero parte oltre i gabelloti delle miniere anche alcuni zolfatai in veste di commissione. [...]
Le condanne, almeno quelle poche che tuttora circolano nella tradizione di Favara, furono di cinque anni di carcere».

Quest’avvenimento fu trasfigurato da Pirandello nel citato romanzo e collocato nella cornice dei fasci dei lavoratori. L’errore cronologico e i particolari inesatti della rivolta, presenti nel romanzo del grande letterato, hanno suscitato le pesanti critiche dello storico locale Bosco:

«Pirandello mescola avvenimenti di varia natura e di varia origine; fa morire vecchi aberrati e nostalgici di patriottismo [il riferimento è a Mauro Mortara] in piazza Cavour, e fa incendiare il municipio di Favara, mentre è risaputo che quei fatti non ebbero mai luogo. Pirandello è eccellente come romanziere, come drammaturgo, ma come storico non fa assolutamente testo, almeno per quelle poche cose ed eventi che egli attribuisce a Favara.
Ci dispiace davvero doverlo dire: quando nella voga dello scrivere si perde il senso della misura delle cose facilmente si slitta nella maldicenza e nella diffamazione; vero è che a Favara ci sono stati molti ladri e molti criminali, ma è altrettanto vero che questa Favara è stata esageratamente diffamata».

Nel finale del romanzo, l’uccisione a Favara del garibaldino Mauro Mortara da parte dei «soldati d’Italia» rappresenta la morte degli ideali risorgimentali traditi .

«Potevano essere le tre del mattino. Forse all’alba sarebbe alla Favara. Attraversata la galleria e giunto nei pressi della stazione di Girgenti, al punto in cui s’imbocca lo stradone che conduce a quel grosso borgo tra le zolfare, dovette però fermarsi davanti alla sfilata di due compagnie di soldati che, muti, ansanti, a passo accelerato, si recavano di notte colà. dal cantoniere di guardia ebbe notizia che, nonostante la proclamazione dello stato d’assedio, alla Favara tutti i socii del Fascio disciolto, nelle prime ore della sera, s’erano dati convegno nella piazza e avevano assaltato e incendiato il municipio, il casino dei nobili, i casotti del dazio, e che gl’incendii e la sommossa duravano ancora e già c’erano parecchi morti e molti feriti. [...] Quando, alla prima luce dell’alba, tutto inzaccherato da capo a piedi, trafelato, ebbro della corsa, stordito dalla stanchezza, si cacciò coi soldati nel paese, non ebbe tempo di veder nulla, di pensare a nulla: travolto, tra una fitta sassajola, in uno scompiglio furibondo, ebbe come un guazzabuglio di impressioni così rapide e violente da non poter nulla avvertire, altro che lo strappo spaventoso d’una fuga compatta che si precipitava urlante; un rimbombo tremendo; uno stramazzo e ... [...] Chi avevano ucciso?».

La mafia favarese s'affacciò al nuovo secolo con la sua scorta di violenza e morte: «si calcola - secondo Bosco - con moltissima approssimazione che, nei primi venticinque anni del secolo attuale, gli omicidi dovuti alle mafie dovettero avvicinarsi al numero di 400; e le famiglie direttamente e indirettamente coinvolte nel malessere circa la metà dell’intera comunità favarese».
Durante il fascismo, con “l’operazione Mori” fu duramente repressa la bassa mafia, mentre gli agrari mafiosi, eliminata la figura dell’intermediario mafioso, rafforzarono il loro potere. «La propaganda fascista - scrive Santi Correnti - strombazzò poi di aver debellato la mafia, mediante la dura repressione operata dal prefetto Cesare Mori dal 1926 al 1928. Il fascismo però sconfisse soltanto la manovalanza mafiosa (i cosiddetti “scassapagghiara”), non ne distrusse l’organizzazione: nel 1935 fu scoperta a Cattolica Eraclea una “cosca” composta da 245 elementi: e nel 1937 ne fu scoperta una seconda, composta da 211 mafiosi, operanti fra Favara e Palma di Montechiaro, sempre in provincia di Agrigento».
Nel 1943, la mafia, contattata attraverso le sue ramificazioni negli U.S.A., favorì l’invasione anglo-americana della Sicilia. In cambio ottenne l’ingresso nelle amministrazioni locali.
In questi anni Favara continuò a subire le violenze della criminalità mafiosa: «i favaresi - scrive Bosco - continuarono a compierle sin dopo la seconda guerra, quando dopo la parentesi fascista, che sembrava aver eliminato per sempre la violenza e le disarmonie, i disordini e tutte le forme di latrocinio, di furti e di rapine, di sequestri e di omicidi, tutte queste sconcezze di inciviltà e, perché no? di barbarie, ritornarono con allarmante recrudescenza».
Il primo maggio 1947, la banda di S. Giuliano sparò su una folla di contadini (strage di Portella delle Ginestre). Oggi, a cinquant’anni circa da quel tragico evento, l’apertura degli archivi e la Commissione antimafia non possono che confermare una verità ormai conosciuta: i mandanti furono la mafia e alcune forze di governo che vollero così fermare il movimento contadino che lottava per la riforma agraria.
Agli inizi degli anni Cinquanta si assistette infatti ad una massiccia emigrazione contadina, alla fine dell’antagonismo sociale nelle campagne e, con esso, alla fine dell’opposizione alla mafia.

La mafia urbano-imprenditoriale

Nel corso degli anni ‘50, la mafia trasferì le proprie attività in città. Qui esercitò il racket sulle attività commerciali e avviò il contrabbando internazionale di sigarette.
Altro cespite di guadagno mafioso fu l’attività edilizia e il controllo degli investimenti e degli appalti: sorsero così nuovi quartieri brutti e costruiti male. Emblematico resta il “sacco di Palermo”, ma Agrigento e Favara non furono da meno, come testimoniano due articoli apparsi nel 1995 sul periodico Suddovest a firma rispettivamente di Gaetano Gucciardo e Piera Lo Leggio. «La crescita demografica, la crescita del reddito, la mutazione del bisogno abitativo - nota Gucciardo - hanno prodotto una domanda di case che è stata soddisfatta attraverso una produzione edilizia affrancata dai regolamenti edilizi, dai piani regolatori, dalle più elementari norme urbanistiche e al riparo da ogni sanzione penale». In queste maglie amministrative s’inserì la mafia, che, distruggendo l’ambiente, fece affari d’oro. Lo Leggio denuncia senza titubanze lo scempio edilizio consumato in un trentennio a Favara: «A partire dal ventennio ‘61-’81 il fulcro dell’economia e il settore vitale per moltissime famiglie favaresi è stato rappresentato proprio dall’edilizia. Nello stesso periodo si è dato inizio ad una politica scellerata, fatta di connivenze e grandi affari, che ha consentito il saccheggio del territorio e persino la distruzione di importanti monumenti storici, trasformando quella che doveva essere una ridente cittadina rurale in un grande dormitorio, dove i fabbricati, anziché le persone, fanno da padroni. Il 95% della superficie totale del comune è occupata da abitazioni e il 60,6% di quelle occupate sono state costruite proprio tra gli anni ‘61-’81». Lo sviluppo abnorme delle costruzioni, però, non è stato in grado di garantire una sufficiente edilizia scolastica, anzi ha determinato un lucroso mercato dell’affitto di edifici privati di cui tuttora risentiamo le conseguenze. Quest’anno scolastico si è aperto con una lunga e sacrosanta lotta degli studenti del nostro Istituto proprio per la grave carenza di aule: conseguenza dell’«inedia delle istituzioni», come dichiara con piglio sicuro il professor P. B., o losco intreccio di affari? L’articolo «Gli istituti superiori di Favara rilasciano diplomi e occhiali!» di Giuseppe Bello, pubblicato sul N° 2 di “Voci dell’aula” di quest’anno, avvalora questa seconda ipotesi. È un articolo che denuncia con coraggio la classe politica di Favara e della Provincia per «aver abbandonato gli Istituti superiori alla mercè degli affittuari, contribuendo a gonfiare le loro tasche»:

«Trent’anni sono passati dalla nascita a Favara della prima scuola superiore, ma solo il MAGISTRALE, oggi, sta per essere costruito.
Nel nostro paese, oltre al Magistrale, esistono gli istituti del Commerciale, dell’Alberghiero e dell’IPIA allocati in strutture costruite per abitazioni civili - abitazioni con poca luce e spazi, privi delle più elementari norme di sicurezza CEE. Per un trentennio per questi locali si sono susseguite molte generazioni di studenti che hanno lavorato in spazi didatticamente inadeguati. La luce del sole, in questi locali, non la si vede mai. Fortunato è così il ragazzo che al termine del corso di studi riesce a prendere soltanto il diploma: gli viene rilasciato di solito anche un bel oaio di occhiali da vista!
A Favara è mancata una seria programmazione scolastica; anzi, direi che non c’è mai stata».

Negli anni Cinquanta, le istituzioni dello Stato rimasero indifferenti o conniventi con la mafia: il Procuratore generale di Palermo nel 1956-1957 affermava che il fenomeno mafioso era «scomparso» e che i delitti di sangue erano da attribuirsi ad «opposti gruppi di delinquenti». Solo nel dicembre del 1962 venne istituita la prima Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia, la quale però riuscì solamente a raccogliere della documentazione sul fenomeno.
Nel 1962 esplose la prima guerra di mafia. Il 30 giugno del 1963, durante questa guerra, nella borgata palermitana di Ciaculli un’automobile carica di tritolo uccise sette carabinieri. La reazione iniziale dello stato all’attentato fu forte, ma i successivi processi di Catanzaro (1968) e di Bari (1969) contro i boss più potenti si conclusero con assoluzioni piene o con lievi condanne.

La mafia internazionale-finanziaria

Dopo la crisi degli anni Sessanta, Cosa Nostra si riorganizzò sotto la guida di Gaetano Badalamenti, Stefano Bontade e Totò Riina. L’autunno del ‘69 s'aprì con l’omicidio di Cavataio (dicembre), nemico delle cosche palermitane guidate da Salvatore Greco e alleate con i corleonesi in ascesa e con le famiglie di altre provincie siciliane: «Emergono - nota S. Lupo - così più stretti collegamenti tra Palermo e il resto dell’isola. [...] Nella Sicilia interna si danno notevolissime continuità storiche: a Riesi, a Favara, a Raffadali, a Siculiana, la rete delle affiliazioni mafiose non deve essersi mai interrotta». A partire da questo periodo la nuova mafia operò un salto di qualità nelle sue attività: il traffico internazionale di droga. Il capitale illegale così accumulato seguirà le strade del riciclaggio e dell’investimento in attività “pulite”.
In questi ultimi venti anni la mafia ha eliminato quanti le si opponevano: carabinieri e poliziotti, politici, giornalisti, magistrati. Fra questi ultimi ricordiamo i giudici Antonino Saetta, ucciso il 25 settembre 1988 sulla statale Agrigento-Caltanissetta, e Rosario Livatino, ucciso il 21 settembre 1990 vicino Agrigento (entrambi di Canicattì).
Dopo l’assassinio del generale Dalla Chiesa (1982), nuove leggi (tra cui quella dell’on. La Torre) hanno mirato a colpire le attività economico-finanziarie della mafia e a favorire il fenomeno dei pentiti, che hanno dato un importante contributo alle indagini. Nel 1991, per coordinare le iniziative giudiziarie e di polizia contro la mafia, sono state istituite la D.I.A. (Direzione Investigativa Anticrimine) e la D.N.A. (Direzione Nazionale Anticrimine).
Dopo i tragici attentati ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (1992), i servizi investigativi hanno raggiunto importanti successi con l’arresto di capi mafiosi latitanti da anni (da Totò Riina a Pasquale Cuntrera) e l’incriminazione di esponenti politici di primo piano, fra cui Giulio Andreotti. Negli ultimi anni sono nati un movimento di studenti e delle associazioni che sostengono l’azione di forze dell’ordine e di magistrati impegnati nella repressione del fenomeno mafioso. Anche la Chiesa sta dando un contributo notevole per estirpare il secolare fenomeno, specialmente dopo l’appello di papa Wojtyla rivolto dal Tempio della Concordia di Agrigento ai mafiosi, il cui tono profetico richiama quello delle parole di padre Cristoforo a don Rodrigo («State a vedere che la giustizia di Dio avrà riguardo a quattro pietre, e suggezione di quattro sgherri [...]. Il cuore di Faraone era indurito quanto il vostro; e Dio ha saputo spezzarlo. [...] Verrà un giorno...»):

«Mafiosi, convertitevi. Un giorno verrà il giudizio di Dio e dovrete rendere conto delle vostre malefatte... questo popolo talmente attaccato alla vita, un popolo che ama la vita, non può vivere sotto la pressione della morte. Qui ci vuole la civiltà della vita. Nel nome di questo Cristo crocifisso risorto, di questo Cristo che è verità e vita, io dico ai responsabili: convertitevi, per amore di Dio... Ecco, sia questo nome, Concordia, emblematico. Sia profetico e sia concordia in questa vostra terra... E a voi, fratelli, dico: il Male non vincerà».


2.3 Mafia e antimafia oggi a Favara

Dalla seguente frammentaria cronistoria degli ultimi anni emerge che il secolare filo rosso della criminalità mafiosa favarese non si è ancora spezzato, lo si evince dall’interessante articolo di Piera Lo Leggio, Favara, la scuola a perdere, apparso nel 1995 sulla rivista Suddovest:

«Quella di Favara è una realtà senza dubbio molto complessa, che presenta diverse aree problematiche.
Le cronache giornalistiche, nonché le indagini giudiziarie confermano innanzitutto l’esistenza di una presenza organizzata della mafia dei cosiddetti “stiddari, che hanno tratto enormi profitti nel campo dell’edilizia e dal mercato clandestino delle sostanze stupefacenti».

In una deposizione del 1995, il pentito Salvatore Barbagallo dichiarò che «l’organizzazione mafiosa aveva la possibilità di contattare anche imprenditori titolari d'imprese con grande fatturato», fra cui qualche impresa di Favara (L. Rosso, I fratelli Salamone).
La notte fra il 15 e il 16 novembre 1996 scattò un colossale blitz dei carabinieri definito in codice Operazione Valanga. Nella rete delle forze dell’ordine, duecento carabinieri con il supporto d'ingenti mezzi militari e un elicottero, caddero 49 componenti della «cosca emergente» dei Linticchieddi. Le imputazioni addebitate agli arrestati erano diverse e gravi: traffico e spaccio di droga, furto di preziosi, furto di armi, riciclaggio di auto rubate, omicidi, un attentato alla caserma dei carabinieri di Favara: «dai piccoli furti agli omicidi come la “Stidda”, scrisse il giornale La Sicilia. L’organizzazione si preparava a compiere il salto di qualità». Le reazioni in paese furono forti: il francescano padre Brucculeri dichiarò che c'era «troppa illegalità diffusa a cominciare dalla scuola dove la dispersione supera il 40 per cento». Fra gli arrestati c’erano anche tre donne con il ruolo di «tesoriere». Per fortuna l’altra Favara insorgeva con sdegno e coraggio al vecchio tentativo pirandelliano di essere assimilata alla delinquenza: «Dalle donne un patto di civiltà per Favara contro la mafia e la mafiosità» fu lo slogan coniato per la festa dell’Otto marzo, organizzata dal centro “George Sand” in collaborazione con il Comune di Favara.
Lo scorso anno il settimanale “Sicilia 7” pubblicò «l’elenco degli appartenenti alla criminalità della provincia di Agrigento» in cui figura una nutrita rappresentanza di favaresi (25 aprile 1997).
Nel contesto di questa nuova realtà mafiosa e di lotta alla mafia è da inquadrare la recente vicenda del giovane favarese Diego Ferraro, la cui scomparsa è collocata dalla cronaca giornalistica regionale nell’ambito del traffico di droga di cui Favara pare continui ad essere un mercato fiorente. La triste storia ha scosso la sensibilità della comunità favarese, che con gli studenti in prima fila ha dato vita ad un imponente corteo. L’emergenza droga e criminalità è stata denunciata con forza dagli studenti dell’Istituto M. L. King attraverso gli articoli della rubrica “Cronaca in classe” del Giornale di Sicilia: «Criminalità a Favara “In aumento estorsioni e spaccio di droga”» (28-4-’98), «P. Empedocle, le imprese qui non investono per paura delle estorsioni» (19-3-’98), «Quattro mesi fa un ragazzo è scomparso nel nulla» (20-3-’98), continuando un impegno che nella scuola favarese non è nuovo, basti pensare alla denuncia del fenomeno dalle colonne di Voci dell’aula («La mafia» Novembre 1996, «Favara e mafia: immagini dalla storia»), e alla recente meritevole iniziativa della Scuola Media Statale “V. Brancati” che ha messo in scena Questo matrimonio non s’ha da fare”, un riadattamento in dialetto favarese del romanzo “I Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni.
La recente Operazione Akragas, resa possibile dalle rivelazioni del boss Pasquale Salemi, collaboratore di giustizia, ha portato in carcere decine di mafiosi dell’agrigentino e qualche favarese.


3. RIFERIMENTI LETTERARI DEL FENOMENO MAFIOSO

La teoria delle due Italie, un’Italia europea al Nord e una africana al Sud, potrà essere seriamente contestata soltanto dopo la sconfitta della mafia che, ripristinando le condizioni minime per un’accettabile convivenza civile, permetterà di gettare le basi dello sviluppo futuro.
Giovanni Falcone


3.1 La giustizia privata nell'Italia del Seicento

L’Italia del Seicento era attraversata da fenomeni di giustizia alternativa e privata che hanno fatto strada: il romanzo I promessi sposi di Alessandro Manzoni ne è la rappresentazione letteraria più nota.
Leonardo Sciascia evidenzia, relativamente all’Italia, il valore universale di quest’opera riguardo al tema della giustizia e invita a una sua rivisitazione didattica: «Manzoni non sta parlando soltanto del secolo XVII, ma anche del suo, del nostro, dell’Italia di sempre. E del resto tutto il romanzo - ma non so quando si capirà a pieno e soprattutto, quando in questa chiave lo si farà leggere a scuola - è un disperato ritratto dell’Italia».
Al grande scrittore di Racalmuto si può dare in parte ragione, infatti, fra la prima e la seconda edizione del grande romanzo lo scrittore Vincenzo Linares di Licata pubblicava I Beati Paoli, un racconto ambientato nella Sicilia spagnola del Sei-Settecento che narra della misteriosa società segreta, cui si è già accennato, ora descritta come una setta spietata :

«I Beati Paoli si adunavano in segreto al tocco della mezzanotte. I processi facevansi su discorsi, che udivano nelle piazze, per le strade, nel foro, nell’interno delle case, imperciocchè i loro proseliti erano sparsi per tutte le classi, s’aggiravano per ogni dove. Brevi erano i loro giudizi e per lo più appoggiati alla pubblica opinione, liberi i voti, pronte e feroci le pene. Voce di popolo, essi dicevano, e come Dio non davano conto della loro condotta. Il magistrato corrotto, il nobile prepotente, l’impiegato venale, quivi erano sottoposti a severo esame. Non di rado si vide il potente Barone, nel giorno istesso del suo trionfo, ucciso sul limitare della sua soglia; ad una ingiusta sentenza seguire la morte di qualche magistrato. Col manto della ipocrisia coprivano le loro buone e cattive azioni. Di giorno stavano genuflessi a piè degli altari orando e pregando, e nelle piazze e nel foro mettendo pace e buone parole; la notte avvolti nel pastrano si appostavano, andavano nelle strade col rosario alle mani, e il pugnale nascosto nel petto. La storia non ha potuto precisamente rintracciare le massime, che regolavano questo tribunale segreto, ma una inconcussa tradizione ci assicura che le loro regole eran fondate su questo principio - riparare i torti degli uomini - e come lor concede pronte provvide misure, così li accusa alle volte di ingiustizia e di ferocia. Quando l’esercizio del potere non teme né leggi, né appello, né pubblicità, allora gli abusi ne sono inevitabili e gravi; imperciocchè le umane passioni, gl’interessi privati, le relazioni di amicizia possono prender luogo di virtù e di giustizia.
È cosa osservabile che Palermo racchiudeva due poteri di questa natura, l’uno legale, l’altro illegale; ma ambidue assurdi, ambidue terribili e avvolgevansi nel mistero, con la differenza che l’uno facea pompa de’ suoi barbari giudizi, l’altro occultava i suoi colpi di mano; quello intendeva purgare gli uomini, e ricondurli alla religione di Cristo con i roghi e le torture, l’altro riparare i torti degli uomini. L’uno era il tribunale dell’Inquisizione, l’altro quello dei Beati Paoli».

Secondo lo storico Santi Correnti, la mafia è un fenomeno d’importazione, dalla Spagna si diramò infatti «nei possedimenti spagnoli in Italia, compresa la Lombardia, come ci dimostrano I promessi sposi». L’azione del romanzo si svolge in un tempo e «in una società civile che risulta mafiosa a tutti e tre i livelli: a livello di base col boss rurale Don Rodrigo (i brani del romanzo sono stati inseriti da noi),

«Signor curato, l’illustrissimo signor don Rodrigo nostro padrone la riverisce caramente.
Questo nome fu, nella mente di don Abbondio, come, nel forte d’un temporale notturno, un lampo che illumina momentaneamente e in un confuso gli oggetti, e accresce il terrore. Fece, come per istinto, un grand’inchino, e disse: - se mi sapessero suggerire... Oh! suggerire a lei che sa di latino! interruppe ancora il bravo, con un riso tra lo sguaiato e il feroce. - A lei tocca. E sopra tutto, non si lasci uscir parola su questo avviso, che le abbiamo dato per suo bene; altrimenti... ehm... sarebbe lo stesso che fare quel tal matrimonio. Via, che vuol che si dica in suo nome all’illustrissimo signor don Rodrigo? - Il mio rispetto...» (cap. I);

al livello medio con l’Innominato (che non è una figura di fantasia, perché è il personaggio storico di Bernardino Visconti),

«Di costui non possiam dare né il nome, né il cognome, né un titolo, e nemmeno una congettura sopra nulla di tutto ciò [...] Fare ciò ch’era vietato dalle leggi, o impedito da una forza qualunque; esser arbitro, padrone negli affari altrui, senz’altro interesse che il gusto di comandare; esser temuto da tutti, aver al mano da coloro ch’eran soliti averla dagli altri; tali erano state in ogni tempo le passioni principali di costui» (cap. XIX);

e al livello di “cupola” con il “Conte-zio”, che interviene autorevolmente per il trasferimento di padre Cristoforo da Pescarenico a Rimini “che è una bella passeggiata”, come dice il Manzoni.

«Lo servirò io di sicuro il frate. Ci penserò, e... il signor conte zio! Quanto mi diverto ogni volta che lo posso far lavorare per me, un politicone di quel calibro! Doman l’altro sarò a Milano, e, in una maniera o in un’altra, il frate sarà servito» (cap. XI).

E nella descrizione del Manzoni non mancano neppure i “consiglieri della mafia”, rappresentati dal dottor Azzeccagarbugli;

«L’altra cosa che premeva a don Rodrigo, era di trovar la maniera che Renzo non potesse più tornar con Lucia, né metter piede in paese [...]. Si risolvette d’aprirsi col dottor Azzecca-garbugli, quanto era necessario per fargli comprendere il suo desiderio. “Le grida son tante!” pensava: “e il dottore non è un’oca: qualcosa che faccia il caso mio saprà trovare, qualche garbuglio da azzeccare a quel villanaccio: altrimenti gli muto nome”. [...] Pensava al dottore, come all’uomo più abile a servirlo in questo» (cap. XI);

né mancano i “fiancheggiatori”, rappresentati da Egidio;

«Costui era uno de’ più stretti e intimi colleghi di scelleratezze che avesse l’innominato» (cap. XX).

né mancano “i killers”, rappresentati dai “bravi”.

«Questa specie, ora del tutto perduta, era allora floridissima in Lombardia, e già molto antica. Chi non ne avesse idea, ecco alcuni squarci autentici, che potranno darne una bastante de’ suoi caratteri principali, degli sforzi fatti per ispegnerla, e della sua dura e rigogliosa vitalità.
Fino all’otto aprile dell’anno 1583, l’Illustrissimo ed Eccellentissimo signor don Carlo d’Aragon, Principe di Castelvetrano, Duca di Terranuova, Marchese d’Avola, Conte di Burgeto, grande Ammiraglio, e gran Contestabile di Sicilia, Governatore di Milano e Capitan Generale di Sua Maestà Cattolica in Italia, pienamente informato della intollerabile miseria in che è vivuta e vive questa città di Milano, per cagione dei Bravi e vagabondi, pubblica un bando contro di essi. Dichiara e diffinisce tutti coloro essere compresi in questo bando, e doversi ritenere bravi e vagabondi,... i quali, essendo forestieri o del paese, non hanno esercizio alcuno, od avendolo, non lo fanno... ma, senza salario, o pur con esso, s’appoggiano a qualche cavaliere o gentiluomo, officiale o mercante... per fargli spalle e favore, o veramente, come si può presumere, per tendere insidie ad altri...[...]
Ogni dì più in questa Città e Stato va crescendo il numero di questi tali (bravi e vagabondi), né di loro, giorno e notte, altro si sente che ferite appostatamente date, omicidi e ruberie et ogni altra qualità di delitti, ai quali si rendono più facili, confidati essi bravi d’essere aiutati dai capi e fautori loro...» (cap. I).

Quella descritta dal Manzoni è una società mafiosa veramente completa, e moderna».


3.2 La mafia nella letteratura post-unitaria

Nel 1862 comparve I mafiusi di la Vicaria di Palermo di Giuseppe Rizzotto: è l’ingresso ufficiale della mafia nella letteratura teatrale in dialetto (alcuni decenni dopo sarà il prete calatino don L. Sturzo a utilizzare il dramma teatrale come strumento di denuncia della mafia). Secondo P. Mazzamuto l’opera apre il «pur modesto svolgimento del verismo siculo-occidentale» i cui testi più rappresentativi sono I masnadieri di Maratona (1871) di Giuseppe Bennici e La Cavalleria di Porta Montalto o i fratelli Amoroso (1884) di Emanuele Scalici. Il tema della mafia è presente anche nella letteratura maggiore del «verismo siculo-orientale»: nel romanzo Mastro don Gesualdo troviamo, nella scena dell’asta delle terre comunali, «i baroni congiurati contro il protagonista, con l’aria di alta cosca mafiosa, che difende a denti stretti il dominio economico tenuto per tanti anni»; nella novella Libertà la borghesia agraria e il baronato sono «tutti come legati in consorteria, proprio alla maniera della mafia, per opprimere i contadini»; nella novella Cavalleria rusticana di Giovanni Verga compare Turiddu è descritto come un uomo con un intenso senso dell’onore e compare Alfio appare «quasi come un mafioso»:

«Compare Alfio tornò colle sue mule, carico di soldoni, e portò in regalo alla moglie una bella veste nuova per le feste.
- Avete ragione di portarle dei regali, gli disse la vicina Santa, perché mentre voi siete via vostra moglie vi adorna la casa!
Compare Alfio era di quei carrettieri che portano il berretto sull’orecchio (corsivo ns.), e a sentir parlare in tal modo di sua moglie cambiò di colore come se l’avessero accoltellato. - Santo diavolone! esclamò, se non avete visto bene, non vi lascerò gli occhi per piangere! a voi e a tutto il vostro parentado! (corsivo ns.).
- Non son usa a piangere! rispose Santa; non ho pianto nemmeno quando ho visto con questi occhi Turiddu della gnà Nunzia entrare di notte in casa di vostra moglie.
- Va bene, rispose compare Alfio, grazie tante».

Il termine cavalleria, come si può notare, è un topos ricorrente nella letteratura e nella cultura siciliane. Cavalleria era, fra l’altro, il nome di un’associazione favarese sorta attorno al 1870: «I fratelli Calogero e Giuseppe Sanfilippo-Rineli, agricoltori laboriosi ed onesti, - racconta Salvatore Bosco - non volendo da soli restare sommersi fra le gravi molestie cui era soggetta la loro categoria, ed inutilmente sperando nella opera della polizia che, come risulta dalla cronaca del Progresso Effettivo, era pigra e sonnacchiosa, consigliati perfino da uomini politici, come Luigi La Porta, di cui erano intimi amici, formarono quella specie di mafia detta la “Cavalleria”».
Nei primi del Novecento, alla mafia e alle sue connivenze accennò Pirandello in diverse sue opere, fra cui il romanzo I vecchi e i giovani: «La mafia è in campo [...]. La polizia favoreggiatrice [...]. Deve arrivare... non so, un pezzo grosso... un deputato... Selmi, mi pare d’aver inteso». Anche in alcune sue novelle fa capolino la violenza di tipo mafioso. In Ciàula scopre la luna uno dei personaggi viene descritto con modi da mafioso: «Cacciagallina, il soprastante, s’affierò contr’essi, con la rivoltella in pugno, davanti la buca della Cace, per impedire che ne uscissero». In Lo storno e l’Angelo Centuno descrive a tinte forti la diffusa violenza di stampo mafioso:

«Com’egli intese proferire quel nome di Favara, spiritò, e cominciò a dire che mai e poi mai avrebbe consentito ch’ella andasse sola a quel paese d’assassini, dove ammazzare un uomo era come ammazzare una mosca. E le raccontò che un favarese, una volta, per provare se la carabina era ben parata, fattosi all’uscio di strada, la aveva scaricata sul primo che aveva veduto passare; e che un carrettiere di Favara, un’altra volta, dopo aver fatto montare sul carretto un ragazzino di dodici anni incontrato di notte lungo lo stradone, lo aveva ucciso nel sonno, perché aveva inteso che gli sonavano in tasca tre soldi; lo aveva sgozzato come un agnello, povero piccino; s’era messi in tasca i tre soldi per comperarsene tabacco; aveva buttato il cadaverino dietro la siepe, e arrì! a passo a passo, cantando, aveva seguitato ad andare, sotto le stelle del cielo, sotto gli occhi di Dio che lo guardavano. Ma l’animuccia del povero ucciso aveva gridato vendetta, e Dio aveva disposto che lui stesso, il carrettiere, arrivato all’alba alla Favara, invece di recarsi alla carretteria del padrone, si fermasse davanti al posto di guardia e coi tre soldi nella mano insanguinata si denunziasse da sé, come se parlasse un altro per bocca sua».

Nei primi anni Sessanta la letteratura sulla mafia fu assai fertile ed è rappresentata da due scrittori di diversa fortuna dell’agrigentino: Antonio Russello di Favara e Leonardo Sciascia di Racalmuto.
Da poco era stato pubblicato il romanzo Il Gattopardo (1957) di Giuseppe Tomasi di Lampedusa che riproponeva l’«immagine» (ma non l’«idea») derobertiana del romanzo I Viceré («La storia è una monotona ripetizione: gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi. Le condizioni esteriori mutano: certo, tra la Sicilia di prima del Sessanta, ancora quasi feudale, e questa d’oggi [: del 1882] pare ci sia un abisso: ma la differenza è tutta esteriore»). L’ideologia immobilistica dell’aristocrazia siciliana traspare in diversi punti dell’opera del Tomasi: «Se non ci siamo anche noi, quelli [: i garibaldini] ti combinano la repubblica» (Tancredi a don Fabrizio); «I Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti» (don Fabrizio a Chevalley).
Il 1960 uscì il romanzo di Russello La luna si mangia i morti il cui protagonista è il figlio di un mafioso. La morte di questi così viene descritta dal nonno all’ingenuo orfano: «Se lo mangiò la luna. - Come nonno? - La luna, quando è rossa, si fa lupinaro, tira fuori le unghie, corre per le strade ed urla. Così se lo mangiò. Dormi ora».
Il primo grande romanzo di mafia è però Il giorno della civetta (1961) di Leonardo Sciascia, «un esempio di come la letteratura possa essere rappresentazione della realtà e strumento di indagine e denuncia delle prevaricazioni e delle ingiustizie» (dalla “Nota introduttiva” al racconto). Riguardo ad alcuni di quei pseudo valori di cui abbiamo parlato, merita attenzione una riflessione del capitano Bellodi che verte sul valore della famiglia come surrogato dello Stato: «La famiglia è l’unico istituto veramente vivo nella coscienza del siciliano: ma vivo più come drammatico nodo contrattuale, giuridico, che come aggregato naturale e sentimentale. La famiglia è lo Stato del siciliano. Lo Stato, quello che per noi è lo Stato, è fuori: entità di fatto realizzata dalla forza; e impone le tasse, il servizio militare, la guerra, il carabiniere. Dentro quell’istituto che è la famiglia, il siciliano valica il confine della propria naturale e tragica solitudine e si adatta, in una sofistica contrattualità di rapporti, alla convivenza. Sarebbe troppo chiedergli di valicare il confine tra famiglia e lo Stato. Magari si infiammerebbe dell’idea dello Stato o salirà a dirigerne il governo: ma la forma precisa e definitiva del suo diritto e del suo dovere sarà la famiglia, che consente più breve il passo verso la vittoriosa solitudine».
Altro pseudo valore è l’arcaico senso dell’onore, che si collega al precedente. In Sicilia, come nota Mario Pazzaglia a proposito della novella verghiana "Cavalleria rusticana", «su tutto domina la legge del focolare domestico, che s’identifica con quella dell’onore; un modo irrinunciabile di sentirsi uomini». Sul delitto d’onore si sofferma Sciascia, riferendosi al melodramma "Cavalleria rusticana" di Pietro Mascagni, ispirato all’omonima novella, che segnò l’avvento del verismo in musica: «Da quando, nell’improvviso silenzio del golfo dell’orchestra, il grido “hanno ammazzato cumpari Turiddu” aveva per la prima volta abbrividito il filo della schiena agli appassionati del teatro d’opera, nelle statistiche criminali relative alla Sicilia e nelle combinazioni del giuoco del lotto, tra corna e morti ammazzati si è istituito un più frequente rapporto. L’omicidio passionale si scopre subito: ed entra dunque nell’indice attivo della polizia; l’omicidio passionale si paga poco: ed entra perciò nell’indice attivo della mafia. La natura imita l’arte: ammazzato sulle scene liriche dalla musica di Mascagni e dal coltello di compare Alfio, Turiddu Macca cominciò a popolare le mappe turistiche della Sicilia e i tavoli d’autopsia. Ma qualche volta, di coltello o di lupara (non più di musica, per fortuna), la peggio toccava ai compari Alfio».
L’anno dopo fu pubblicato il secondo romanzo di Russello, La grande sete. Vi si narra la storia del mafioso Mimì lo Bue, che per trattenere ad Agrigento l’amante Maria ne fa uccidere il marito, un commissario che sta per essere trasferito a Milano. La mafia vi è descritta nei modi del Pitrè:

«Volete concludere - aveva finito per dire Righi - che giustificate la mafia? - Ma no, commissario bello - avevano detto tutti in coro. - Per carità, non la scusiamo affatto; la giustifichiamo solo come un rigoglio di vitalità, vitalità magari negativa, ma sempre vitalità».

Sul romanzo si è soffermato, nel 1970, Pietro Mazzamuto che ne evidenzia «lo sfondo favoloso» e il «paesaggio fisico dominato dalle passioni», come nell’«immagine dello scirocco [...] e della sete d’acqua e di sangue che esso suscita». Di recente Massimo Onofri ne ha messo correttamente in evidenza i tratti sicilianisti: «L’accesa e riarsa lussuria del protagonista, la sua smisurata vitalità, vengono spiegati in termini per così dire geoclimatici, antropofisici, a documentare la grande longevità dell’ideologia sicilianista».


3.3 Scrittori di ieri e di oggi: quattro brani per riflettere

Non siamo più diversi, non siamo più «dèi»: siamo scesi dall’Olimpo per vivere da e con i comuni mortali. La Sicilia è diventata permeabile alla cultura dell’Italia europea del Nord: la cultura delle palme e quella degli abeti si sono compenetrate. La mafia non è più cosa nostra ma anche cosa loro: l’onore della Sicilia è salvo. Ma è proprio così? Dalle parole di Giovanni Falcone, poste in epigrafe, sembra di no: un avvicinamento fra le due Italie potrà attuarsi soltanto dopo la sconfitta della mafia. Dalle parole, profetiche, di Sciascia sembra di sì: «la linea degli scandali», dopo più di trent’anni dalla pubblicazione del romanzo Il giorno della civetta (1961), è salita da Roma a Milano, approdando con tangentopoli alla Procura della Repubblica. Lo scrittore Andrea Camilleri di Porto Empedocle, ma residente a Roma, ha recentemente risposto, in un’intervista pubblicata nell’ultimo numero dell’Espresso, di sentirsi uno scrittore italiano, pur rivendicando le sue radici siciliane, e denuncia un debito dello Stato italiano verso il Meridione che non può essere dimenticato: «L’unità d’Italia è una ferita non chiusa, come direbbe Giovanni Boine. Credo che siano stati commessi nei riguardi del Sud una tale quantità gigantesca di errori che ce la portiamo appresso. È una cosa che non riesco a mandare giù, ma che non ha niente a che vedere con idiozie come la secessione». Al lettore comunque la sentenza, dopo la lettura di quattro brani tratti da:

"Il Gattopardo" di Tomasi di Lampedusa,

«Due o tre giorni prima che Garibaldi entrasse a Palermo mi furono presentati alcuni ufficiali di marina inglesi, in servizio su quelle navi che stavano in rada per rendersi conto degli avvenimenti. Essi avevano appreso, non so come, che io possiedo una casa alla Marina, di fronte al mare, con sul tetto una terrazza, dalla quale si scorge la cerchia dei monti intorno alla città; mi chiesero di visitare la casa, di venire a guardare quel panorama nel quale si diceva che i garibaldini si aggiravano e del quale, dalle loro navi non si erano fatti un’idea chiara. Vennero a casa, li accompagnai lassù in cima; erano dei giovanottoni ingenui malgrado i loro scoppettoni rossastri. Rimasero estasiati dal panorama, della irruenza della luce; confessarono però che erano stati pietrificati osservando lo squallore, la vetustà il sudiciume delle strade di accesso. Non spiegai loro che una cosa era derivata dall’altra, come ho tentato di fare a lei. Uno di loro, poi mi chiese che cosa veramente venissero a fare, qui in Sicilia, quei volontari italiani. ‘They are coming to teach us good manners’ risposi ‘but wond succeed, because we are gods.’ ‘Vengono per insegnarci le buone creanze ma non lo potranno fare, perché noi siamo dei’. Credo che non comprendessero, ma risero e se ne andarono»;
"Il giorno della civetta" di Leonardo Sciascia,

«Forse tutta l’Italia sta diventando Sicilia... A me è venuta una fantasia, leggendo sui giornali gli scandali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno... La linea della palma... Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato... E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già verso Roma...»;
"La luce e il lutto" di Gesualdo Bufalino,

«Sciascia ha scritto una volta che la “linea delle palme” tende a salire verso il Nord; che la Sicilia, cioè, sta in qualche modo sicilianizzando il resto d’Italia. È vero, ma forse è altrettanto vero che la “linea degli abeti”, se così vogliamo chiamarla, cala sempre più verso Sud. L’aria del continente, di cui Angelo Musco respirava i primi zefiri mezzo secolo fa, soffia oggi vigorosa fin negli angoli più remoti della provincia isolana.
La Sicilia, insomma, invade ma è invasa. Passerà poco (anni, mesi) e sarà impossibile distinguere una coppia di ragazzi che passeggia per un viale del parco di Monza da un’altra che balla allacciata in una discoteca di Canicattì. È un processo d’omologazione reciproca»;
"Favara. Le sue miserie le sue disarmonie" di Salvatore Bosco,

«Un giovane contadino un paio di decenni fa mi diceva l’essere stato nel 1950 in una bella città del centro Italia, e di aver fatto visita a un suo parente, stabilito in quella città sin dal 1925. Domandato dallo zio cosa si facesse di nuovo e di bello a Favara in quel torno di tempo, il giovane, sul quale pesavano le mode e le antiche consuetudini del nostro paese, non esitò a esporre a suo zio la situazione delle varie mafie. E quello, con visibile accento di nausea, gli disse: “Ma come! Siamo già nel 1950 ed ancora a Favara parlate di mafia?” - “Oggi però, continuava il giovane, le cose sono davvero mutate”. Ed infatti, confrontando quel primo famigerato ventennio dell’attuale secolo con questo che si è instaurato da circa un trentennio ad oggi a Favara, c’è da dargli veramente ragione.
Da qualche tempo la moda delle mafie si è trasferita in altri posti della nostra “bella Italia, ricca di scienziati, di navigatori, di santi; dove vegeta rigogliosa e dà esempi stupendi a tutto il mondo! Come si sa, ha imbrattato tutto l’apparato dello Stato, persino quei gangli vitali dove si foggiano le leggi e dove si restituisce l’integrità dei diritti a chi vengono violati e soppressi».
L’uomo in ogni tempo e in ogni luogo, pur mutandosi e modificandosi, nel conoscere e nel volere, in un certo senso si può dire che è sempre lo stesso...».

BIBLIOGRAFIA

1. Alongi, G., La maffia, Palermo, ed. Sellerio, 1977.
2. Bosco, S., Favara. Le sue miserie e le sue disarmonie, Tipolitografia “Moderna”, Modica 1989.
3. Bosco, S., Proletariato a Favara, Sicilia Punto L edizioni, Ragusa.
4. Bufalino, G., La luce e il lutto.
5. Correnti, S., Storia della Sicilia, Newton Compton editori, Roma 1994.
6. Dalla Chiesa, N., Il potere mafioso, 1976.
7. Ganci, M., La nazione siciliana, Siracusa, Ediprint, 1986.
8. Istituto Magistrale “M. L. King” di Favara, Carta dei servizi, 1996-’97.
9. Istituto Professionale Statale per l’Industria e l’Artigianato “G. Marconi” di Favara, Progetto Educativo d’Istituto, 1997-1998.
10. Lega Navale Italiana - Sez. di Agrigento e Porto Empedocle, L’uomo e l’ambiente marino (Atti del Convegno internazionale «Mare e territorio»).
11. Manzoni, A., I promessi sposi.
12. Mazzamuto, P., La mafia nella letteratura, Palermo, Edizioni Andò, 1970.
13. Onofri, M., Tutti a cena da don Mariano, Milano, Bompiani, 1996.
14. Pirandello, L., I vecchi e i giovani, Newton Compton editori, Roma 1993.
15. Pirandello, L., Novelle per un anno, Newton Compton editori, Roma 1993.
16. Rosso, L., I fratelli Salamone tra mafia e antimafia, Agrigento, Edizioni EDI.DE.GI, 1996
17. Russello, A., La luna si mangia i morti, 1960.
18. Russello, A., La grande sete, 1962.
19. Russello, A., Lo sfascismo, 1985.
20. Santino, U., La mafia interpretata. Dilemmi, stereotipi, paradigmi, Messina, Rubbettino Editore1995.
21. Sciara, F., Favara: guida storica e artistica, Amministra -zione Comunale di Favara, 1997.
22. Sciascia, L., Gli zii di Sicilia, Einaudi, Torino.
23. Sciascia, L., Il giorno della civetta, Einaudi, Torino, 1990.
24. Sciascia, L., Opere, voll. I, III, Milano, Bompiani, 1987.
25. Sciascia, L., Quaderno, Palermo, Nuova Editrice Meridio-nale, 1991.
26. Tomasi di Lampedusa, G., Il Gattopardo, 1958.
27. Verga, G., I grandi romanzi e tutte le novelle, Roma, Newton Compton, 1992.

Salvatore Vaiana

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